Fu “il primo pentito delle Brigate rosse”, Patrizio Peci. Quello del pentitismo fu tra i fenomeni più importanti per permettere di smantellare e sconfiggere definitivamente il terrorismo in Italia. Ma non il solo, come ci ha spiegato Maurice Bignami, ex capo militare di Prima Linea: “Fu il movimento della dissociazione politica – che mise in discussione tutti i presupposti teorici, tutti gli assiomi ideologici che avevano supportato le scelte estreme di quegli anni – a chiudere definitivamente quella pagina e a riportare, anche con fatica, un’intera generazione ribelle alla democrazia”.
Resta che a pagare fu una persona innocente e del tutto estranea alla lotta armata, il fratello Roberto. Ne ha parlato ieri nel giorno del suo compleanno la figlia Roberta, che all’epoca dei fatti non era neanche nata, era nel ventre della madre, non ha mai potuto conoscere il padre, un operaio di 25 anni la cui unica colpa fu essere fratello di un terrorista. Roberto Peci fu ucciso con una metodologia che si discostava da quella usata fino ad allora dalle Brigate rosse e altri gruppi armati, un metodo che piuttosto era tipico della mafia: uccidere perché altri non facessero lo stesso, uccidere parenti in modo disgustosamente vendicativo. Ne abbiamo parlato proprio con Maurice Bignami, che ai tempi dei fatti, il 1981, era il capo militare di Prima linea, altra organizzazione armata dell’estrema sinistra che si distinse per la consegna delle armi all’arcivescovo di Milano Carlo Maria Martini, decretando così la fine della guerra durata un decennio.
Patrizio Peci passò alla storia come “il primo pentito delle Brigate Rosse”. Che cosa significa per lei la figura del pentito?
I pentiti furono tra i segni più evidenti delle fine di un’epoca. Non solo quella della lotta armata, ma anche del movimento politico che ebbe nel Sessantotto studentesco, nel Sessantanove operaio e, in conclusione, nel Settantasette i suoi momenti più significativi. Credo che esemplifichino tragicamente la fine dell’idea di rivoluzione, di forzatura escatologica, di palingenesi sociale. Va però anche detto che molti pentiti collaborarono dopo aver subito vere e proprie torture. Averli poi trattati da traditori non fu una delle nostre minori infamie.
C’era da parte vostra la paura che i pentiti potessero causare la fine della lotta armata in Italia?
Fu quasi subito evidente che la crisi sempre più accelerata della lotta armata non poteva essere affrontata colpendo i pentiti. Quella crisi era la punta di un iceberg. Era il punto più evidente del venir meno, peraltro inglorioso, di un modello politico e di un insieme di riferimenti teorici. D’altra parte, non furono i pentiti a chiudere quella pagina drammatica della nostra storia. Fu il movimento della dissociazione politica – che mise in discussione tutti i presupposti teorici, tutti gli assiomi ideologici che avevano supportato le scelte estreme di quegli anni – a chiudere definitivamente quella pagina e a riportare, anche con fatica, un’intera generazione ribelle alla democrazia.
Roberto Peci fu ucciso con uno stile che ricorda quello della mafia: un omicidio per vendetta. Che effetto vi fece? Un gesto esagerato, disperato, o pieno di cattiveria che magari vi fece pensare che si stesse esagerando nella lotta armata?
Non c’è mai stata amicizia tra noi e le Br. All’epoca, le consideravamo addirittura alla stregua di nemici. Tuttavia, lungi da me il voler fare una spregevole graduatoria tra chi è stato più “cattivo”. Va però detto che quell’omicidio, anche ai tempi, ci parve di una gravità e di una mancanza assoluta di giustificazione spaventose, anche nella logica aberrante di allora.
Nell’intervista la figlia di Roberto Peci cita la scarcerazione dell’assassino, Giovanni Senzani, dicendo di non provare odio ma solo indifferenza per lui. Lei è stato uno dei dirigenti di Prima linea: come vive il fatto che la vostra organizzazione si sia macchiata di tanti omicidi? Ha mai incontrato i parenti delle vittime? Ha desiderato il loro perdono?
Si vive con un senso costante di sofferenza. Come ho spesso affermato, si può essere ex terroristi, mai ex assassini. Affronto la questione scrivendo. Testimoniando. Sì, ho avuto modo d’incontrare molte vittime e parenti di vittime, quando ciò non causava loro ulteriore pena. Per quanto riguarda il perdono, posso affermare (per averlo visto all’opera) che è una straordinaria dinamica di liberazione, del carnefice e della vittima. Un’avventura che può, in alcuni casi, demolire i muri del reciproco dolore.
Prima linea, con un gesto clamoroso, consegnò le armi all’arcivescovo Carlo Maria Martini, come segno che cessava la lotta armata. Come nacque l’idea di rivolgersi a lui? Fu per il carisma e le parole di Martini che cercava un dialogo con i terroristi, o semplicemente perché la Chiesa era una sorta di “terzo protagonista” tra voi e lo Stato? Una sorta di ente neutrale?
Fu una scelta a lungo meditata, che nacque dopo numerosi incontri, specialmente con i cappellani delle carceri. La Chiesa fu la prima istituzione che seppe leggere e valorizzare il nostro bisogno di cambiamento, che ci considerò degni di ascolto, di affetto e di considerazione. Senza la Chiesa non ci sarebbe stata la dissociazione politica dal terrorismo, la promulgazione della legge che ha sancito la fine della lotta armata in Italia e ha poi consentito la decarcerazione di migliaia di detenute e detenuti.
Alla luce della sua esperienza, cosa significa aver incontrato Dio? È una speranza che vale per tutti, anche per chi ha commesso atti orribili? Il perdono e la vita nuova sono possibili per tutti?
Significa essere un uomo libero. Libero dalle ideologie. Libero dai poteri e dai contro-poteri. Significa avere incontrato l’Altro in tutti gli altri. E ciò anche nel luogo solitamente preposto alla mancanza di libertà. In questo senso, la prigionia è stata un “viaggio al termine della notte” a cui non potrei mai rinunciare. È stato un percorso per tanti? Credo di sì, anche se per molti ha prevalso il pudore e il silenzio.
(Paolo Vites)