Metti una sera a cena. Senza scrittori annoiati e passioni dissimulate, però, come nel film di Patroni Griffi; metti una sera a cena tra amici di lunga data, che parlano del loro lavoro. Che è insegnare, e che stanca – come tutti i lavori – ma è pieno di storie.
La prima, mentre attacchiamo gli antipasti, la racconta Teresa, che insegna italiano in un tecnico. Alla sua quarta, a detta dei colleghi “una delle peggiori”, propone di partecipare a un concorso nazionale, i “Colloqui fiorentini”. I ragazzi, suddivisi in gruppi di lavoro di varie classi, dovranno scrivere qualcosa su Pavese. E siccome, per scrivere, bisogna prima leggere, dice loro di comprarsi qualcosa dell’autore.
Nello stesso pomeriggio, Dario (lo chiameremo così) le manda un whatsapp: “Prof, lei che conosce me e il mio modo di pensare, quale libro di Pavese mi può consigliare?”.
“Non so che rispondergli – racconta Teresa – è un tipo particolare, ha pure preso 6 in condotta. Io so che si porta dietro delle ferite, non è proprio un ragazzo ottimista. Gli suggerisco alcuni racconti, magari li leggiamo insieme. Dopo un’ora, un altro whatsapp. In bella mostra Il mestiere di vivere, e lui che mi scrive: ‘Domani c’è allerta meteo: mentre fuori piove, me lo gusterò sotto le coperte!’.
Così – prosegue Teresa – si comincia a leggere, a casa e in classe. Colpiscono, proprio del Mestiere, alcune pagine del novembre 1937: ‘L’unica gioia al mondo è cominciare. È bello vivere, perché vivere è cominciare, sempre, ad ogni istante…’; ‘La lezione è sempre una sola: buttarsi a capofitto e sapere portare la pena’; ‘Tutti gli uomini hanno un cancro che li rode, un escremento giornaliero, un male a scadenza: la loro insoddisfazione’. ‘Non dovrà sorprendermi, in qualche mattina di nebbia e di sole, il pensiero che quanto ho avuto è stato un dono, un grande dono?’. Succede l’impensabile: ‘Prof, ma Pavese parla proprio della sua esperienza, non di ideali o problemi astratti’. ‘Ma perché non ce lo ha fatto conoscere prima? Questo sì che è un autore da leggere!’. ‘Prof, questa non è… letteratura, è arte!’ (sic)”.
Teresa si ferma. “E questa sarebbe una brutta classe?” le chiede qualcuno. “Alle classi peggiori, allora!” e il Nero d’Avola riempie i bicchieri.
“Guardate che non è tutto – riprende Teresa, mentre arriva il risotto –. Il racconto dell’episodio è girato tra i colleghi. Con qualcuna condividiamo nei dettagli le storie e il metodo di fare lezione: far intravedere il filo rosso che lega i contenuti studiati alla vita. Sentite quello che mi ha raccontato Mariagrazia, una mia collega e amica.
– Ho portato in classe il giornale e ho letto coi ragazzi ‘Ultimo banco’, la rubrica di Alessandro D’Avenia: a tema Stendhal e la fragilità dell’uomo. ‘È una piovosa notte parigina del 1828, quando un uomo di 45 anni, con l’anima inzuppata di tristezza scrive le sue ultime parole, dopo una serata mondana in cui aveva cercato pace per la sua vorace sete di felicità, col risultato di rimanere ancora una volta deluso’. Stendhal pensa di farla finita, ha pronta accanto a sé la pistola, ‘ma all’ultimo istante – continua D’Avenia – butta l’arma e afferra di nuovo la penna, scrive qualcosa e crolla esausto nel sonno. […] L’indomani uno dei suoi amici vede sulla scrivania il foglio sul quale c’è scritto con un tratto scavato e disperato: Julien, e gli chiede chi sia. Lui, smarrito e con un quasi suicidio alle spalle, risponde: Bah, volevo scrivere un romanzo… L’amico, entusiasta, lo incoraggia a raccontare. E così Julien Sorel diviene uno dei personaggi immortali della letteratura’. Il silenzio, in classe, è assoluto. Io continuo a leggere: ‘Viviamo in un’epoca in cui ci si vergogna d’essere fragili. […] I sentimenti dolorosi, che cancelliamo con distrazioni e auto-illusioni, sono soltanto messaggi dell’anima che sente l’incompiutezza e l’insufficienza della vita, sintomi onesti della nostra costitutiva fragilità’. Fine dell’articolo, fine dell’ora; chiedo ai ragazzi di scrivere un loro commento personale ed esco. Qualche giorno dopo, Giulio, un alunno trasferitosi da poco, esibisce il suo elaborato. Si capisce che ha voglia di parlare. Lui, così timido e introverso mi fa intuire che ha qualcosa da dire. Lo interrogo e lui attacca a raccontare l’esperienza che lo ha visto finire sulla sedia a rotelle, da cui si è rialzato solo da qualche tempo e dopo due lunghi e duri anni di lotta, con l’aiuto della sua famiglia e degli amici che hanno combattuto insieme a lui. Giulio dice che le parole di D’Avenia (e la storia di Stendhal) parlano di lui. Anche la sua è una storia all’insegna dell’apparente sconfitta, vissuta con forza straordinaria, quella forza invisibile di chi è in apparenza debole. Nel suo dolore ha trovato uno sguardo d’amore, di quell’amore simpatico che lo ha sostenuto nella sua battaglia. Nonostante riconosca la fragilità della sua indole introversa, Giulio si mostra consapevole della bellezza e dei doni che la vita ci offre proprio nel momento della sofferenza –”.
Teresa ha finito di raccontare. Ci guardiamo tutti in faccia, in silenzio; ognuno sta pensando alle sue ferite, ai suoi incidenti e agli sguardi che lo sostengono.
Salvo, professore di matematica all’istituto alberghiero, si alza, prende la frutta, la distribuisce. Poi torna a sedersi; si vede che vuole raccontare qualcosa anche lui. “Ero in prima – ci dice – e spiegavo i polinomi. Erano attenti, mi pare, e la spiegazione filava proprio bene quando – è mezzogiorno – dalla chiesa vicina alla scuola parte un fragoroso scampanio. Devo fermarmi, il suono è troppo forte, i ragazzi si distraggono, qualcuno ridacchia, i polinomi sono già lontani mille miglia. Impossibile riprendere come se niente fosse. Così, per riacchiappare le loro menti in fuga, chiedo ai ragazzi se sapessero cosa significa quel suono: silenzio smarrito, qualcuno continua a ridacchiare, nessuno risponde. Be’ – dico loro, provate a chiederlo in famiglia –. Poi suona la campanella: di questa sanno bene il significato, scattano come molle, i più veloci sono già in corridoio. Li rivedo qualche giorno dopo e chiedo cos’hanno scoperto delle campane di mezzogiorno. Quasi non se ne ricordavano più; comunque, la ricerca a casa, se c’è stata, non ha dato risposte. In qualcuno, però, la curiosità è rimasta e mi chiede: ‘Ma allora, professore, ce lo dice lei cosa volevano dire quelle campane?’. Non posso tirarmi indietro, e racconto loro di una ragazza ebrea di duemila anni fa, dell’annuncio dell’angelo, dell’incarnazione di Dio, del Natale. Si appassionano, mi fanno mille domande. E l’ora vola via. Esco dall’aula ma una ragazza, chiamiamola Lorena, mi ferma e mi dice che vuole diventare cristiana. Sono sorpreso, prendo tempo, le dico di pensarci bene su. La ragazzina non demorde però e, qualche giorno dopo, durante la ricreazione, torna alla carica. Stavolta sono io che devo pensarci bene su. Ne parlo con un amico prete, poi incontro la mamma di Lorena e si parte con il catechismo! La settimana successiva un compagno di classe di Lorena mi dice che la storia della sua compagna l’ha colpito e chiede anche lui di poter ‘studiare’ per prima comunione e cresima. Diego, lo chiameremo così, mette le mani avanti: ‘Prof, non è che io frequenti molto la Chiesa e la parrocchia. Catechismo e tutte queste cose qui non mi piacciono molto’. Veramente non gli piacciono tanto neanche la scuola e le sue regole. E forse è una fortuna, penso io. Diego si era beccato una sospensione per una delle sue bravate: solo che, invece di farlo stare a casa, la scuola ha convertito la punizione in prestazioni socialmente utili e l’ha mandato alla Colletta alimentare, e lì, quel giorno, qualcosa è scattato… Con Lorena e Diego ci si vede ogni settimana, per un’oretta, tra alti e bassi; nel frattempo si è aggiunto qualche altro ragazzo che ha già preso i sacramenti, ma che è interessato a quello che facciamo”.
Teresa, Mariagrazia, Salvo. Una sera a cena e sbucano storie di amicizia tra studenti e docenti appassionati, che cercano cose belle e vere.