Compie oggi ottant’anni un film che incarna, per fama e importanza, la storia stessa del cinema hollywoodiano. Parliamo di Via col Vento (Gone With the Wind, Victor Fleming 1939), che uscì in anteprima ad Atlanta il 15 dicembre 1939, poi il 19 successivo nel resto degli Stati Uniti (in Italia solo nel marzo del 1949, per intuibili motivi legati al regime e poi alla guerra).
Via col Vento è parte della storia del cinema per splendida classicità della sua narrazione, una sorta di melodramma archetipico e spettacolare, affresco epico e storico dell’America al tempo della guerra civile; adattamento fedele, per quanto consentito dalle intrinseche differenze tra i due mezzi (cinema vs. letteratura), dell’omonimo best seller del 1936 di Margaret Mitchell (1900-1949), scrittrice e giornalista nativa di Atlanta – come molti dei suoi personaggi – cui questa sua (quasi) unica opera valse nel 1937 il premio Pulitzer. È la storia del cinema perché rimane a tutt’oggi il più grande successo di pubblico di tutti i tempi, contando le presenze in sala, superato nell’incasso – in valore assoluto – solo da pochi film più recenti, a cominciare dal Guerre Stellari del 1977.
È un film che ha fatto la storia anche, forse soprattutto, per la presenza in scena di personaggi e interpreti indimenticabili, corpi e volti che hanno saputo magistralmente dare linfa vitale all’epica vicenda immaginata e scritta dalla Mitchell. Come non restare ammaliati dai caratteri dei protagonisti, l’indomita orgogliosa Rossella O’Hara (Vinien Leigh) e l’ineffabile Rhett Butler (Clarke Gable), poli opposti della storia d’amore-odio più riuscita al cinema? Come non ricordare la bravura dei coprotagonisti, soprattutto dell’attore inglese Leslie Howard nei panni del diafano Ashley, l’amore triste e impossibile di Rossella? O di Mami, la governante di colore sempre con la battuta pronta (interpretata da Hattie McDaniel, la prima afroamericana a vincere un Oscar, come miglior attrice non protagonista)? Come non commuoversi all’arrivo dei nordisti ad Atlanta, al fascino romantico dell’incendio della città? Come non partecipare al pathos di Rossella, costretta a scappare di notte, su un fragile calesse con Melania e il di lei neonato, aiutata da un impertinente Rhett? Come dimenticare il loro bacio in siluette scura sullo sfondo rosso sangue dell’incendio? Come non innamorarsi di Tara, la tenuta della famiglia O’Hara, la terra che il padre di Rossella le raccomanda di curare come l’unica cosa di valore nella vita, che lei stessa difenderà con ogni espediente fin oltre le proprie forze? Come dimenticare le celebri battute che punteggiano i passaggi chiave della vicenda, tutte riportate pari pari dal testo del romanzo?
L’immensa fortuna del film, oltre alla ricordata solidità dei personaggi disegnati dalla Mitchell e dalle notevoli capacità degli interpreti, si deve anche alla tenacia e alla lungimiranza del produttore David O. Selznick, che già nel 1936 acquistava i diritti del romanzo, intravedendone gli scenari di un grande film. La stesura della sceneggiatura, affidata inizialmente – e poi accreditata – a Sidney Howard, passò infatti di mano in mano (compreso in quelle del non accreditato Scott Fitzgerald) nel tentativo di ridurla a una lunghezza più gestibile dalla regia. Quest’ultima fu affidata a George Cukor, con cui Selznick aveva svolto la pre-produzione del film. Cuckor iniziò le riprese nel gennaio del 1939 per essere licenziato dopo sole tre settimane. Al suo posto venne chiamato Victor Fleming, regista di punta della MGM, casa di produzione con cui Selznick aveva l’accordo per la distribuzione del film. Fleming riuscì a finire la lavorazione nei tempi stabiliti, nonostante le intrusioni poco gradite del produttore, che gli procurarono un esaurimento nervoso. Anche il cast fu il frutto di interminabili travagli: per il ruolo di Rossella ci vollero oltre mille provini, mentre Clark Gable, oggetto di una corte spietata da parte di Selznick, tergiversò non poco prima di accettare il ruolo di Rhett Butler, per il quale si rivelò poi perfetto e divenne uno step fondamentale della sua carriera.
Insomma, uno dei non rari casi nei quali le difficoltà produttive e i “casi della vita” nella scelta del cast hanno prodotto un autentico capolavoro dell’industria hollywoodiana del cinema classico, splendente nella sua fotografia in technicolor, di avanguardia per l’epoca. E poco importa se risulta, agli sguardi di taglio moderno, un po’ razzista e maschilista: gran parte dei filmoni della Hollywood dell’epoca lo sono, senza per questo soffrirne nella loro bellezza narrativa, nell’imponenza scenica come nell’importanza storica. Vinse otto Oscar, tra cui tre dei quattro principali (film, regia, attrice protagonista).
Tanta la fama di questo eterno film che esiste un cinema ad Atlanta, il CNN6 Centre, il quale dal 1939 riserva una sala per proiettarlo due volte al giorno, senza che il pubblico protesti o si stanchi mai, perché dopotutto – come suole ripetere Rossella O’Hara – domani è un altro giorno.