Se scendi il rettilineo che da Novi/ punta ai monti, la vedi,/ la fabbrica che si raffredda/ come noi, la spira ben visibile/ di ciò che sale in nulla e si disperde. La spira di cui qui si parla è la ciminiera della fabbrica Italsider di Novi Ligure in cui lavorava il padre del poeta che, nella prima parte di questo suo poemetto, ricorda come nel freddo inverno del 1963 quella ciminiera inaugurasse la nuova era dell’industria al limite di quel territorio piatto.
Egli sente tutta la necessità di dire quella vicenda che s’intreccia con la sua vita e con la vita di quelli della sua generazione e delle generazioni che l’hanno seguita. Sente il dovere di ricostruire la vicenda di questa fabbrica come una storia con la esse minuscola, un tassello, una parte di una Storia più grande che, come recitano i versi finali del poemetto sopra riportati, sembra essere svaporata via insieme alle illusioni che quella fabbrica aveva creato.
A più riprese il poeta confessa ancora che non possono essere taciute le cose, gli eventi, gli accadimenti senza i quali i versi non avrebbero alcun senso, alcuna direzione, alcun peso. La poesia si assume quindi il ruolo di testimone della realtà, confessando però fin da subito che non è in grado di andare al fondo delle cose, di immergere la mano sotto la superficie; che il suo compito rimane quello di redigere una sorta di inventario di quello che è stato e delle cicatrici che, quanto è avvenuto, ha lasciato: dopo le illusioni e le utopie, rimangono gli anni di piombo e il sangue, il gelido riflusso e l’ingresso vero nel mondo, quello concreto delle cose da realizzare, che ha chiuso i conti con i sogni e viaggia con le sue certezze disperate. Così il presente viene disegnato come il lento sciogliersi dei sogni, come il rimanere di fusti marci in mezzo al campo, la plastica avvinghiata ai rami alti del salice, nel coma estivo dei letti deturpati.
C’era un’altra possibilità? C’era una linea di fuga, un’altra strada da percorrere, che non portasse a questa patria piccola e senza miti? Il poemetto sembra celebrare, nei suoi versi conclusivi, la desolazione della sconfitta: impossibile una qualsiasi rivincita, semmai, appunto, l’andare in niente e la dispersione di ogni cosa, così come accadeva al fumo della spira.
Che dunque è molto più di un simbolo storico: la ciminiera è il poeta stesso, e fumo che si disperde sono le sue stesse parole? Del resto, lo aveva programmaticamente dichiarato: non può la poesia andare al fondo delle cose, ne segue invece il corso, lungo o breve che sia, ma sempre destinato ad un’evanescenza incolpevole.
Ma tutto è davvero come sembra? Nella poca luce di questi quadri in cui il poeta ritaglia spazio e tempo, è come se si insinuasse una minaccia, forse una profezia: gli attimi e le cose viaggiano via, non tornano. Ma questa intima e quasi arcigna consapevolezza dell’eterno andare via di noi e delle cose, si accompagna a una chiara malinconia: nei versi che precedono il finale, il poeta sembra concedere una possibilità alla natura e al mondo e alla possibilità dell’uomo di conoscerne un qualche bene profondo: L’acqua fredda di montagna/ che solo ha conosciuto/ l’utero della roccia e il buio/ ha la purezza dell’innocenza.
Nell’opera di Mauro Ferrari (La spira, puntoacapo Editrice 2019), nel suo buio dominante, non affiora forse la nostalgia di un luogo che possa restare in quella gloria quotidiana e umile che era accaduta un tempo tra la pianura e la collina, tra la testa e il cuore? Non affiora la nostalgia di un luogo, di un paese come un orizzonte in cui ognuno di noi possa abitare e splendere davvero e sempre? Il poemetto di Mauro Ferrari ambisce a raccontare il mondo, nel continuo intrecciarsi della storia collettiva con quella individuale, cercando una lingua semplice, ma non semplicistica, per farlo: lo sfilacciarsi dei sogni della sua generazione, la discesa progressiva in un destino di sconfitta, non trovano sempre però continuità espressiva. In qualche passaggio la distanza tra i momenti diversi della stesura – la realizzazione del testo è stata prolungata nel tempo, come il poeta rivela nella sua nota conclusiva – è piuttosto marcata: il canto quasi disteso della prima parte, lascia posto a una scrittura più sincopata, per certi versi giustificata dal diverso dipanarsi del tempo nuovo della delusione. Così l’ossessione per il particolare che ritroviamo vibrante e forte nella prima parte del testo – e che tante volte Ferrari ha delineato come la strada maestra della poesia – lascia il posto a qualche passaggio in cui si registra uno slittamento del tono e del lessico che appaiono più didascalici, come però inevitabilmente può accadere nel tentativo certo non facile di condensare in pochi versi eventi che si distendono in percorsi di anni.
Ma il poemetto di Ferrari, nel suo lento dipanarsi, vive sempre dentro il respiro unico di ciò che accade e che, pur restando singolare e irriducibile, proprio per questa sua irriducibilità reale e concreta, diventa epico ed esemplare. Mai maiuscolo, ma drammaticamente minuscolo e vicino e umano. Come sa essere la poesia di Mauro Ferrari che si tuffa dentro il grande fiume della tradizione della poesia narrante, accettando la sfida della vita quotidiana e non chiudendola dentro lirismi soffocanti, ma lasciandola correre verso il suo destino. Lo fa in quel modo caratteristico che hanno le narrazioni che, finiti i miti e gli eroi, si tengono dentro registri dolorosi e drammatici; convocando nei luoghi tutta la forza costruttiva o distruttiva di ciò che viene prima e dopo di loro; chiamando a testimoni figure e cose vissuti nel tempo.
La poesia torna così a essere il luogo in cui ripensare il mondo, riavvolgere la sua storia con la possibilità di rinvenirvi un inizio di comprensione, una traccia, mai definitiva, di una direzione che può accadere, oppure no, nell’avventura quotidiana della vita.