“Esiste solo una soluzione diplomatica alla crisi libica (…) L’Italia deve riprendersi il suo ruolo naturale di Paese amico e principale interlocutore”. Sono state queste le prime parole del ministro degli Esteri italiano Luigi Di Maio dopo la visita in Libia in cui ha incontrato sia esponenti del Governo di accordo nazionale (Gna) sia attori dell’est, tra cui anche il generale Khalifa Haftar con cui negli ultimi mesi c’è stata più di un’incomprensione.
Quella di Di Maio è stata una missione necessaria ma non sufficiente per restituire all’Italia un ruolo all’interno del paese. Il dossier Libia è stato accantonato per troppo tempo dal governo giallo-rosso. Un tempo nel quale molti altri attori regionali e internazionali hanno acquistato una vera e propria leadership, ad iniziare dalla Turchia e dalla Russia, oggi i veri player in questo complesso scacchiere. D’altra parte la lezione è ben nota: in politica gli spazi vuoti non esistono perché vengono subito riempiti.
E così gli “spazi vuoti” lasciati dall’assenteismo italiano sono prontamente stati riempiti dalla Turchia. Il premier onusiano Fayez al-Serraj, lo scorso 28 novembre, ha firmato un protocollo d’intesa con il presidente turco Erdogan in cui si parla sia di un accordo sulla gestione economica delle acque che circondano il confine sud-est dell’Europa per l’istituzione di una Zona economica esclusiva (Zee), sia di un’intesa per ampliare la cooperazione militare per la sicurezza tra le due parti.
Si tratta di un patto che favorirebbe la Turchia su due fronti. In primo luogo Ankara, già coinvolta nel teatro libico con lauti finanziamenti alle milizie dell’ovest e con la fornitura di armamenti, diventerebbe “parte attiva” nel conflitto sostituendosi, de facto, a Serraj. A riprova di ciò Erdogan ha affermato che ci sarebbero 5mila militari turchi pronti ad entrare in Libia “senza il permesso di nessuno”; ma con tutta probabilità forze turche sono già sul terreno da tempo. Il posizionamento ad ovest, inoltre, consentirebbe loro di controllare “sul campo” un’area in cui vi è una massiccia presenza dei Fratelli musulmani, da sempre supportati dal governo di Ankara. In secondo luogo la realizzazione della Zee permetterebbe al “Sultano” di rispolverare le mai sopite ambizioni di neo-ottomanesimo, garantendogli il controllo esclusivo di una porzione nevralgica del Mediterraneo orientale, compresi i diritti di estrazione di petrolio e gas e i relativi gasdotti che solcheranno quella zona, sottraendoli a molte altre imprese, Eni inclusa.
Dall’altra parte la Russia, che già nel gennaio del 2017 aveva firmato un accordo di cooperazione militare con il generale Khalifa Haftar a bordo della portaerei russa Admiral Kuznetsov, ha intensificato la sua collaborazione con il generale attraverso l’invio di centinaia di mercenari che hanno consentito alle forze dell’Esercito nazionale libico di abbattere droni di ricognizione italiani e americani grazie alla fornitura di un’alta tecnologia antiaerea.
Non è difficile capire chi in questo momento conta davvero in Libia: un attore esterno per avere una voce in capitolo in un Paese in guerra deve avere forze combattenti sul terreno e in questo momento sono Russia e Turchia ad averle. Visto poi che chi conta decide è probabile che, se lo scenario restasse quello appena delineato, saranno Mosca e Ankara a scegliere se la soluzione per la Libia sarà diplomatica o militare e non l’Italia o l’Europa che, per lo meno fin qui, si sono limitate a prendere atto degli stravolgimenti in corso nel Paese.
Per cercare di capire quali potrebbero essere le sorti della Libia non resta, dunque, che capire cosa decideranno di fare questi attori. È plausibile ipotizzare che, dopo aver mostrato i muscoli per alzare la posta in palio, i due scenderanno a patti. In ballo non c’è solo l’affare miliardario della vendita alla Turchia da parte della Russia di sistemi missilistici S-400, che di per sé sarebbe già un buon motivo per sedersi al tavolo, ma anche questioni energetiche come il progetto del Turkish Stream, il gasdotto che consentirà alle forniture russe di arrivare direttamente in Turchia attraverso il Mar Nero. La Russia è il secondo partner economico di Ankara, che nel 2018 ha visto aumentare le sue esportazioni verso Mosca del 50% rispetto agli anni precedenti. Non servono altre parole per spiegare quanti siano gli interessi in ballo e di quale portata.
È probabile, dunque, che prima o poi Putin ed Erdogan decideranno di accordarsi per una qualche “spartizione” delle rispettive sfere di influenza in Libia. Se lo faranno da soli o seduti a un qualche tavolo internazionale dipenderà anche dalla capacità dell’Europa di superare la sua debolezza strategica e le sue divisioni interne. Tuttavia anche qualora riuscissero a farlo, né l’Italia né l’Europa avranno un ruolo determinante nell’ex Jamahiriya, per lo meno nel breve periodo. Detta in altri termini, nella migliore delle ipotesi, chi ha voluto rovesciare il regime di Gheddafi per avere le fette della torta libica ora dovrà accontentarsi delle briciole.