Magna si licet componere parvis… Io dico che licet. Si può sì mettere a confronto faccende di grandi dimensioni con altre piccine a apparentemente poco rilevanti.
L’accostamento che mi viene di fare è quello tra l’amministratore delegato di Telecom France (120mila dipendenti) del periodo 2007-2009, 24 suicidi di lavoratori in diciotto mesi, e l’imprenditore italiano Christian Bracich, titolare della Cpi-Eng (progettazione meccanica, 60 dipendenti). Il primo è stato riconosciuto colpevole, a processo, di aver usato mezzi illeciti per realizzare tagli (22mila, un quinto del personale); il secondo riconosciuto “eroe civile” dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, con altri 31 protagonisti di grandi gesti di amore al prossimo.
La vicenda di Telecom France risale a una decina di anni fa, quando la compagnia telefonica statale fu destinata a una rapida privatizzazione in un contesto europeo e mondiale fortemente competitivo. Didier Lombard fu il regista di una drastica ristrutturazione, si può dire che rovesciò l’azienda – la sua organizzazione, le mansioni – come un calzino, con annessi demansionamenti, pressioni psicologiche, induzione di stress, strapazzamenti vari del personale così da impigliare nella rete a strascico brutalmente gettata 22mila dimissioni… volontarie. Ad esempio: ingegneri della manutenzioni della rete spostati al call-center. In questo clima i suicidi di cui si è detto, più altri tentati, più depressioni gravi e quant’altro. Il processo non ha riconosciuto lui e i suoi top manager colpevoli di omicidio involontario, essendo il nesso diretto di causa-effetto tra pressioni e suicidi non dimostrabile giudiziariamente, ma di “aver messo in atto un piano concertato per peggiorare le condizioni di lavoro degli agenti al fine di accelerare le loro partenze”.
Tornando al piccolo, Bracich quando ha saputo che una sua dipendente assunta con un contratto a termine era incinta, le ha fatto un contratto a tempo indeterminato, le ha permesso un periodo di telelavoro da casa prima del rientro fisico in azienda.
Ora, è evidente che non possiamo paragonare i numeri, le dimensioni, la complessità. Ma come ragionano le zucche, sì.
Per quelli d’Oltralpe, istruiti dalle scuole economiche super-liberiste come quasi tutti i loro affini, il lavoro non è una dimensione umana. Per il cisalpino nostrano, il lavoro lo è.
Qui sta la differenza. È una differenza culturale. Non si tratta affatto di negare i problemi dell’ammodernamento, dell’innovazione, dell’efficientamento; nemmeno la necessità di ristrutturazioni.
Ma in nessuno di questi casi separare e contrapporre la dimensione umana alla razionalità economica porta a buoni risultati. Ricordo nei primi anni 80 un seguitissimo dialogo in Università Bocconi tra il card. Martini e Carlo De Benedetti, entrambi piemontesi ed entrambi leader di spicco e di immagine l’uno della Chiesa e l’altro dell’economia e della finanza. Il porporato sosteneva che l’economia dovesse mettere al centro l’uomo, il finanziere che dovesse mettere al centro il profitto. Messa così non c’è (né ci fu nel dibattito) sbocco alcuno: all’economia la ragione, all’uomo i buoni sentimenti. Ma questa è una vecchia dicotomia che dobbiamo superare. Ed è la riconsiderazione del lavoro, sia come realizzazione di beni, sia soprattutto come autorealizzazione della persona, il punto che fa saltare la dicotomia. Recuperando il valore dell’impresa, che non può cavarsela producendo scarti. E del sindacato, che non può cavarsela con i contro, ma deve aiutare a governare i processi di cambiamento, nella logica dell’accompagnamento dei lavoratori.
Più profondamente, c’è una bellezza nel lavoro, quando gli si può dare un senso, che è da riscoprire: nel lavoro, non nel ruolo o nella mansione o nel consumo, come vogliono farci credere.
Per questo le testimonianze, anche se piccole come dimensione, sono un insegnamento e un’indicazione preziosa. Basta prenderle per quello che sono: non episodi di buonismo individuale ed inincidente, ma brillio di una cultura da proteggere e incrementare.