Eugenio Montale pubblica nel 1973 la raccolta Diario del ’71 e del ’72. In essa la poesia Sorapis, 40 anni fa rievoca una lunga camminata tra i monti dell’Engadina compiuta tenendo per mano la moglie, fino alla cima.
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Scoprimmo allora che cos’è l’età.
Non ha nulla a che fare col tempo, è qualcosa che dice
che ci fa dire siamo qui, è un miracolo
che non si può ripetere.
È noto il riserbo con cui Montale ha protetto il suo lungo legame con la Mosca; qualcosa se ne intravvede in Satura, nelle poche liriche dedicate al ricordo di lei, che sono tra le sue cose più belle.
Qui il trascorrere degli anni passati dalla morte di lei dona alla parola una trasparenza che la avvicina al silenzio. È l’improvviso riemergere di un pensiero sopravvenuto in entrambi, davanti al lago, nella capanna vuota e poi conservato per quarant’anni fino a trovare la via della parola poetica.
Non so dire per quale strano percorso questo frammento mi fa riandare a una pagina del Vangelo, quella della presentazione di Gesù al tempio, nota anche perché ogni sera a Compieta la liturgia la ripropone. Si svolge non all’aria fina della montagna, ma nel luogo in cui abita Dio. Il vecchio Simeone, dopo una vita passata nell’attesa, accoglie tra le braccia il bambino e la gioia diventa preghiera: “Ora lascia o Signore che il tuo servo vada in pace secondo la tua parola, perché i miei occhi hanno visto la salvezza preparata da te davanti a tutti i popoli”.
Tanti anni a coltivare la memoria di un amore, tanti anni a custodire la speranza della luce che illumina le genti.
Il tempo non passa invano, non rode le cose e la vecchiaia sembra riprendere il rigoglio smarrito con gli anni, diventa pura perché riflette in qualche modo la luce del miracolo.