La notizia che Davide Casaleggio ha contribuito a stendere il Piano nazionale 2025 presentato da Paola Pisano, ministra 5 Stelle all’Innovazione tecnologica, ha riacceso il dibattito su cosa sia oggi un conflitto di interesse.
Che Casaleggio – uno dei leader più importanti del Movimento – non possa contribuire alla definizione delle proposte che una ministra del suo partito deve avanzare in sede di governo lascia un attimo perplessi.
La motivazione principale è riferita al fatto che Casaleggio – in quanto azionista di una piccola società di consulenza nel settore Ict – abbia potuto in questo modo condizionare il mercato da cui trae profitto. A intorbidire ancora di più le acque è giunta la notizia che uno dei principali finanziatori della Fondazione Open che fa capo a Matteo Renzi, l’armatore Onorato, ha pagato alla Casaleggio Associati un compenso per attività non meglio definite e che comunque anche questo bonifico è stato segnalato come atipico da Banca d’Italia.
Non vi è dubbio che la vicenda accende un riflettore su una tematica rimasta fino ad oggi troppo nell’ombra. Stiamo parlando della complessa materia che riguarda il ruolo che la politica – ruolo fino ad oggi assai debole – deve avere in materia di “sviluppo digitale”.
L’argomento è divenuto scottante da quando lo sviluppo delle attività di e-commerce grazie alle piattaforme globali hanno fatto emergere un gigantesco buco nell’imponibile fiscale di ogni paese sviluppato. Miliardi di euro sfuggono ormai al controllo delle autorità finanziarie nazionali. Solo nel 2018, ad esempio, le grandi aziende globali del settore hanno versato nelle casse dell’erario italiano appena 60 milioni, pochi spiccioli. La stessa cosa succede in ogni paese europeo e negli stessi Stati Uniti, come ha fatto rilevare di recente il candidato alle primarie democratiche Sanders, dove le prime 14 aziende globali nate negli Usa (tra cui spiccano quelle di Information Technology) hanno pagato zero dollari di tasse. La domanda generale dunque è la seguente: dove finiranno mai gli utili di questi signori, che come sappiamo sono ormai i veri padroni della Terra?
Ma la materia di cui stiamo parlando non ha solo un enorme risvolto fiscale, e sinceramente, la questione non è se essi paghino o meno le tasse come tutte le altre imprese. Come ormai sappiamo da tempo, la gestione dei dati – dei nostri dati, quelli “sensibili” che rilasciano ogni volta che compiamo la più elementare azione quotidiana, come prenotare un albergo, pagare l’affitto o usare il Telepass – il modo come questi dati sono conservati e analizzati, il valore che questi dati hanno, rimandano ad una questione che potremmo definire di “sovranità digitale”.
In sostanza, è giunto il momento di chiederci dove i dati che affidiamo con una certa spensieratezza a soggetti che ci assicurano la gestione “in cloud” sono materialmente conservati. Restano in Italia, o almeno in Europa, o sono spediti in uno sperduto data-center ai confini del mondo?
Il tema non è di poco conto. Rimanda a complesse questioni di sicurezza, di rispetto delle normative vigenti, di tutela della privacy.
Il monopolio raggiunto dalle poche gigantesche aziende globali (Amazon, Microsoft, Oracle, Apple, Ibm) dunque non mette solo a rischio gli introiti fiscali di paesi che non sanno più dove andare a tassare gli utili prodotti, ma soprattutto ci pone di fronte al problema che non abbiamo alcuna garanzia di come essi conservino e gestiscano i nostri dati.
Facciamo un esempio concreto. Pensate solo al valore enorme rappresentato dal contenuto delle cartelle cliniche digitali di 60 milioni di italiani. Sappiamo dove questi dati sono conservati e da chi sono letti? Siamo sicuri che, come è già avvenuto, non finiscano nelle mani delle grandi aziende farmaceutiche o dei big delle assicurazioni? In una epoca di vorticoso sviluppo dell’Intelligenza Artificiale questa non è proprio un tema di secondaria importanza.
In questi anni abbiamo assistito senza che si sollevassero polemiche a ben altri conflitti d’interesse, come quando nel 2016 il governo Renzi nominò Commissario di governo sul digitale Diego Piacentini, prelevato direttamente dagli uffici di Amazon dove svolgeva il ruolo di vice-presidente. Sarebbe interessante scoprire – dopo tre anni di permanenza a Palazzo Chigi – dove adesso lavori il dott. Piacentini e se per caso non è tornato alle dipendenze del colosso americano. In questo modo, anche grazie alle numerose nomine fatte in quegli anni, la nostra pubblica amministrazione è stata “infiltrata” da decine di persone provenienti dalle aziende leader del settore senza che nessuno se ne accorgesse.
È talmente nota la dipendenza del governo italiano dai leader mondiali del settore che sembra che sia stata recapitata ad alti livelli una formale protesta, al momento solo riservata, da parte degli altri governi europei. In particolare voci ben informate parlano di una missione svolta nei giorni scorsi dal ministro delle finanze tedesco, Peter Altmaier, giunto in Italia con l’obiettivo di convincere le autorità italiane ad adottare una posizione unitaria europea. Il ruolo dell’Italia è essenziale sia per dare segnali univoci sulla nuova tassazione, sia per dare vita ad una nuova azienda europea a cui affidare i dati sensibili dei singoli paesi.
Cosa abbia risposto il governo italiano al momento non è dato saperlo. Viste la polemica scoppiata sul progetto digitale “Agenda 2025” bisogna realisticamente pensare che lo scontro all’interno della maggioranza è solo all’inizio. Anche su questa cruciale questione (tassare seriamente i profitti digitali, tutelare la sovranità dei dati sensibili) gli schieramenti vedono da un lato il premier Conte, il Pd e 5 Stelle e dall’altra Italia Viva, schierata apertamente a tutela delle grandi aziende americane.
In particolare il Pd si sta svegliando da un lungo sonno. Per anni l’attuale ministro Francesco Boccia ha condotto una battaglia solitaria sul tema della tassazione. Ma senza successo. Anche la sinistra ha subito il fascino del cambiamento ad ogni costo, e non ha contrastato lo strapotere delle grandi aziende del settore, che finanziano numerose attività di promozione e di formazione, si avvalgono di uno stuolo di lobbisti, e condizionano il successo degli organi di informazione digitali.
È invece di un certo rilievo l’arrivo nella squadra del Pd di Francesca Bria, la giovane assessore all’innovazione del comune di Barcellona. Il Pd ha imposto il suo nome come responsabile del Fondo d’investimento per lo sviluppo dell’economia digitale e le startup, uno strumento che nasce con una dotazione di circa 2 miliardi di euro.
Ma quello che colpisce positivamente sono le posizioni della Bria, che sembra tra i pochi che non intendono sottostare al pensiero unico dominante, e che ha ben chiaro il tema della tutela dei cittadini nella nuova era digitale. Come faceva notare qualche giorno fa Repubblica: “La sovranità digitale delle persone contrapposta all’egemonia di Facebook e Google è un concetto che torna spesso nei suoi discorsi ed era il cuore di un grande evento organizzato all’inizio di novembre a Torino, Decode, che era in realtà la tappa di un progetto europeo più ampio che punta a mobilitare innovatori, startup, organizzazioni non governative e comunità in una alleanza che ribalti l’attuale ordine digitale”.
Anche in questo caso bisognerà seguire con molta attenzione quello che succede in casa Pd. Sono annunciate novità. E se sono rose, fioriranno.