L’azione dei servizi pubblici per l’impiego è rivolta prioritariamente ai disoccupati, cioè, secondo l’art. 19, d.lgs. n. 150 del 2015, a coloro che dichiarano la «propria immediata disponibilità allo svolgimento di attività lavorativa e alla partecipazione alle misure di politica attiva del lavoro concordate con il centro per l’impiego». La condizione di disoccupato, in senso tecnico lo stato di disoccupazione, si acquisisce mediante una dichiarazione di immediata disponibilità al lavoro (D.I.D.) rilasciata (in forma telematica) all’Anpal dal soggetto e da questi successivamente confermata dalla stipulazione con il centro per l’impiego di un patto di servizio personalizzato. Il patto sostanzia l’immediata disponibilità del dichiarante in obblighi di vario contenuto, tra cui atti di ricerca attiva di lavoro e l’accettazione di congrue offerte di lavoro, come definite dall’ordinamento.
La domanda che ci poniamo è se lo stato di disoccupazione sia totalmente incompatibile con lo svolgimento di attività lavorative e, dunque, con la percezione di un corrispettivo economico. Al riguardo, il già citato art. 19 precisa che lo stato di disoccupazione resta sospeso «in caso di rapporto di lavoro subordinato di durata fino a sei mesi». Invece, la normativa precedente, ora abrogata, oltre all’ipotesi di sospensione appena ricordata consentiva – con l’esclusione del periodo tra luglio 2012 e agosto 2013 – la «conservazione dello stato di disoccupazione a seguito di svolgimento di attività lavorativa tale da assicurare un reddito annuale non superiore al reddito minimo personale escluso da imposizione».
Il passaggio tra vecchia e nuova disciplina, perciò, evidenzia l’incompatibilità dello stato di disoccupazione con lo svolgimento di attività lavorative e i relativi compensi – quale che ne sia la misura – sia di lavoro autonomo, sia di lavoro subordinato di durata superiore a sei mesi. Pertanto, all’esercizio di attività così connotate seguirà la perdita di quello stato. L’unica eccezione è disposta dall’art. 54-bis, d.l. n. 50 del 2017, convertito in legge n. 96 dello stesso anno, secondo cui, a decorre dal 24 giugno 2017, i compensi percepiti per le prestazioni occasionali «non incidono sullo stato di disoccupazione».
Peraltro, con questa disciplina deve confrontarsi la normativa relativa alla (parziale) cumulabilità tra trattamenti di disoccupazione, Naspi e Dis-Coll, e rapporti/redditi di lavoro sia subordinato sia autonomo, ai sensi degli artt. 9, 10 e 15 (per la Dis-Coll), d.lgs. n. 22 del 2015. Limitandoci alla Naspi, l’art. 9 ne prevede la sospensione qualora il rapporto di lavoro subordinato non superi i sei mesi, oppure il riconoscimento in misura ridotta quando, a prescindere dalla durata, esso produca «un reddito annuale (…) inferiore al reddito minimo escluso da imposizione» fiscale. Quanto ai redditi da lavoro autonomo o anche d’impresa individuale, l’art. 10 li considera compatibili con il trattamento di disoccupazione in misura ridotta, soltanto se corrispondono «a un’imposta lorda pari o inferiore alle detrazioni spettanti ai sensi dell’articolo 13 del testo unico delle imposte sui redditi di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917».
Siffatta regola, tuttavia, confligge con l’art. 19, d.lgs. n. 150 del 2015: dall’esistenza di un reddito di lavoro autonomo o di lavoro subordinato ove prestato per più di sei mesi, infatti, dovrebbe conseguire la perdita dello stato di disoccupazione, a sua volta condizione necessaria per godere del trattamento di disoccupazione.
A questa contraddizione ha posto rimedio l’art. 4, co. 15-quater, per il quale, al fine del reddito di cittadinanza e «ad ogni altro fine, si considerano in stato di disoccupazione anche i lavoratori il cui reddito da lavoro dipendente o autonomo corrisponde a un’imposta lorda pari o inferiore alle detrazioni spettanti ai sensi dell’articolo 13 del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917».
In tal modo, a decorrere dal 30 marzo 2019, data di entrata in vigore della legge di conversione, viene ripristinata la situazione previgente il d.lgs. n. 150 del 2015: il disoccupato resta tale se svolge attività di lavoro autonomo o subordinato entro il tetto reddituale indicato, mentre l’esistenza di un contratto di lavoro subordinato di durata non superiore a sei mesi sospende lo stato di disoccupazione.
Resta un ultimo problema: come si coordinano le due norme? In altri termini, che succede in presenza di un’attività di lavoro subordinato di durata inferiore a sei mesi, ma produttiva di un reddito inferiore alla soglia reddituale minima? Lo stato di disoccupazione è sospeso o no?
Una risposta l’ha data la Corte di Cassazione con la sentenza n. 27506 del 28 ottobre 2019. Il caso riguardava il diritto al trattamento di disoccupazione in presenza di un reddito inferiore al minimo imponibile e derivante da una prestazione di lavoro subordinato di 10 settimane; la soluzione dipendeva dall’interpretazione del previgente art. 4, d.lgs. n. 181 del 2000 (nel testo modificato 2002, per il quale la sospensione conseguiva a un lavoro a tempo determinato o di lavoro temporaneo di durata inferiore a otto oppure quattro mesi in relazione all’età del disoccupato).
Dunque, secondo la Corte il reddito minimo personale escluso da imposizione «consente sempre il mantenimento della condizione di disoccupazione, a prescindere dalla tipologia contrattuale dalla quale tale reddito annuale sia conseguito, a tempo determinato o determinato. Solo in caso di superamento di detta soglia può ritenersi venuta meno la necessità di sostegno pubblico del reddito in favore del lavoratore (e dei suoi famigliari)». Peraltro, «il superamento della soglia di reddito annuale (…) non dà luogo a perdita dello stato di disoccupazione, ma solo a sospensione dello stesso, qualora il rapporto sia a tempo determinato» e della durata fissata dalla norma.
Invece, quando il rapporto di lavoro a tempo determinato infrasemestrale «non abbia determinato il superamento della soglia annuale di reddito (..), la condizione di disoccupazione (…) viene conservata» e non sospesa.
I giudici ritengono questa interpretazione «necessaria al fine di non creare un’ingiustificata disparità di trattamento tra lavoro a tempo determinato e indeterminato», nel senso che, diversamente ragionando, l’erogazione del trattamento di disoccupazione sarebbe temporaneamente sospesa solo in presenza di un lavoro a termine.
Come detto, questa soluzione è stata assunta sulla base di una disposizione abrogata. Peraltro, ciò non sembra d’ostacolo alla sua perdurante validità nel diverso quadro normativo odierno. A differire, infatti, sono le disposizioni di riferimento e non le norme, che si presentano analoghe (se non identiche) quanto a struttura e valenza precettiva e ripropongono il medesimo problema di coordinamento tra criterio reddituale di conservazione dello stato di disoccupazione e quello temporale di sospensione dello stesso.