L’errore più grande che commettiamo è quello di voler comprendere il presente prima che passi: soffrire capendo il senso del dolore, amare intuendo il significato del bene, salutare cogliendo il perché dell’addio. È questa dinamica che ci porta a voler dare posto e ordine a tutto, individuando buoni e cattivi, colpe e colpevoli, meriti e virtù.
Ed è dentro questa dinamica che Camilla, Gaia e Pietro sono stati imprigionati. La loro storia, almeno per sommi capi, è già nota: Pietro ha vent’anni, da poco gli è stata restituita quella patente confiscata per possesso di stupefacenti. Attraversa, pare sfrecciando, corso Francia a Roma. Gaia e Camilla sono due sedicenni che hanno appena avvisato casa di essere sul punto di rientrare e che sembra cerchino un modo per fare più in fretta ed evitare la pioggia che, copiosa, assale la notte romana. Attraversano alla cieca, lontane da strisce e semafori, corso Francia ed è lì – a quell’inspiegabile appuntamento – che incontrano Francesco e, trovando lui, sono improvvisamente investite e gettate nella morte.
La storia dovrebbe finire qui, per poi eventualmente spostarsi sul dolore delle famiglie, quelle delle vittime e quella del presunto carnefice. Ma la cronaca vuole di più, il copione di chi ha bisogno di risposte non ammette indugio: e allora ecco le indagini, i testimoni, le ricostruzioni, perfino i funerali. Tutto disegna una verità dei fatti, o forse due. E tutto è dato in pasto ai giornali perché nessuno abbia davvero a vivere il presente, l’abisso del dolore, il silenzio della responsabilità. E si tira fuori dal cilindro Dio, quel Signore un po’ ammaccato che non risparmierebbe la richiesta di un tributo di sangue al genere umano nemmeno a Natale, nemmeno nei giorni del Suo presunto compleanno.
Ma è questo l’errore e l’orrore della vita: appiattire tutto ad una sola dimensione, quella immanente del presente, e pensare di comprendere ogni cosa a partire dagli elementi in nostro possesso. Lo facciamo con i tumori, con i figli, con le tragedie, con il matrimonio, con le calamità naturali e con gli amici. Eppure quante volte ci siamo dovuti arrendere a capire dopo, addirittura trascorsi venti o trent’anni, quello che ci è successo, il suo senso, il suo gusto, il suo dono. È come se il cielo fosse una grande tavola bidimensionale su cui sono state collocate delle luci in cui noi non ravvediamo nessun disegno, nessuna costellazione. Il tempo che passa dona tridimensionalità alla tavola, insegnandoci quali puntini unire e mostrandoci forme e bellezze laddove i nostri occhi sapevano vedere solo caos e asperità.
Camilla, Pietro e Gaia sono solo tre puntini, tre stelle. Diamo al tempo l’opportunità di unirli e abitiamo il dolore nella più alta forma di dignità possibile: l’obbedienza. Obbedienza ad un Mistero che anche oggi ci ha ridestato dal sonno per aggiungere profondità al nostro cammino e mostrarci, giorno dopo giorno, ancora più luce, ancora più strada. Come avvenne ai Magi, che impararono ben presto a tornare a casa per un’altra via. Quella conosciuta nel tempo dell’attesa, nelle notti dell’ascolto, al cuore dei sogni.