La cronaca di ogni anno porta alla luce alcuni fatti che l’opinione pubblica segue con passione, affascinata da particolari – a volte morbosi, a volte preoccupanti – che meglio di ogni altra analisi o autorevole commento fotografano il tempo che stiamo vivendo, le sue pulsioni profonde, le sue profonde paure. Anche il 2019 si può dunque raccontare attraverso alcuni fatti che lo hanno segnato e lo hanno caratterizzato indelebilmente.
È l’alba del 27 gennaio quando la polizia viene chiamata a Cardito, in provincia di Napoli, da vicini preoccupati per le urla raccapriccianti che provengono da una casa insospettabile del centro abitato. Le forze dell’ordine, all’apertura della porta, trovano un bimbo di sette anni morto sul divano, la sorellina di otto anni completamente massacrata di botte e il fratellino di quattro anni fortunatamente illeso. Sono i frutti della violenza inaudita di un uomo di 24 anni, scagliatosi contro i figli naturali della sua nuova compagna, accusati di distogliere le attenzioni della madre dal loro figlio comune. Genitori e figli saranno al centro di questo 2019, facendo emergere sempre di più la genitorialità dei millennials come una paternità e una maternità problematiche, cariche di sensi di colpa, di identificazioni proiettive nei figli, di un senso di proprietà spesso al confine con la violenza.
Passa poco meno di un mese e Torino si interroga sull’efferato “delitto dei Murazzi”, dove viene ucciso il 34enne Stefano Leo, fuori da occhi indiscreti di testimoni e telecamere. Le indagini si intensificano e ciò che alimenta dubbi e scetticismi della procura è la totale mancanza di movente: Stefano Leo è un millennial figlio del suo tempo, con trascorsi in Australia, Nuova Zelanda e Brasile, da poco convertitosi alla pratica della meditazione orientale, deciso finalmente a tornare a casa sua a Biella perché pieno di pace interiore e – forse – davvero felice. È quella felicità che il suo assassino, Said Mechaouat, gli legge negli occhi ed è per quella felicità che il ragazzo è ucciso. Lo dichiarerà il colpevole stesso, stretto all’angolo all’inizio di aprile, aprendo un significativo dibattito su giornali e tv circa l’inquietudine che attraversa questa nuova generazione – i millennial, appunto – giunta al tempo dell’età adulta e della responsabilità.
Inquietudine e violenza si aggiungono alla cattiveria pura in uno degli episodi più raccapriccianti dell’anno: è l’8 luglio quando un clochard di 42 anni viene picchiato e bruciato vivo nei pressi della stazione di Villafranca, in quel nord-est un tempo cattolico e oggi alla ricerca di una qualche forma di identità. L’uomo è straniero e i suoi stessi aggressori risulteranno poi non essere italiani. Messi ai margini della promessa di benessere dell’economia capitalista, scartati dai meccanismi che regolano il nostro tempo, ghettizzati da un occidente che non sa più come includere e integrare l’altro perché privo di un’identità da proporre e in cui amalgamare, questi uomini restano alla mercé della loro rabbia, della loro cattiveria, del loro ultimo dolore. Divampa nel paese la polemica contro gli stranieri: è la pazza estate di un governo in agonia e di un populismo che fatica a trasformare in proposta la propria idea di protesta.
L’estate romana è però soltanto all’inizio: il clamore della politica è sedato solo dalla notizia tremenda della morte del vicebrigadiere Mario Cerciello Rega, trentacinquenne ammazzato da un giovane americano che dal rappresentante dell’Arma si è sentito braccato e con le spalle al muro. Un carabiniere ucciso in servizio è una notizia capace di coagulare un consenso largo, un cordoglio esteso. Eppure quest’omicidio è segnato anche da numerosi post sempre più aggressivi e cattivi contro l’Arma, contro quegli uomini che rappresentano lo Stato e lo onorano ogni giorno difendendolo. La morte di Cerciello Rega, vissuta con incredibile fede dalla moglie e dalla famiglia di lui, fa toccare con mano al paese il livello di barbarie che la democrazia dei social permette e in cui tutto il dibattito, pubblico e privato, sembra in poco tempo destinato a naufragare.
Infine l’ultimo caso che chiude questo triste girone dantesco della cronaca nera del 2019 è rappresentato dalla morte di Luca Sacchi, il personal trainer che quest’autunno è stato ucciso nell’ambito di una resa dei conti tutta interna al mondo della microcriminalità, in cui Luca c’entrava poco o nulla, se non per la fidanzata – Anastasia – che sembrerebbe aver ancora molte cose da dire su un episodio che è rimasto scolpito nell’immaginario di molti: Luca è infatti il classico bravo ragazzo, intraprendente, gentile, pronto a tutto per difendere la persona che amava. È finito in un imbuto più grande di lui, quasi a comunicarci che – alla fine di questo lungo anno – ad essersi corrosa nel nostro paese è proprio la capacità di fiducia reciproca, quel senso di poter contare gli uni sugli altri sostituito da un egoismo becero che sta diventando egemonico nella cultura, nella politica, nel modo di intendere la società. Un 2019 che si chiude con sempre meno persone e con sempre più individui, dove la differenza fra queste due parole – in fondo – la fa la quantità di solitudine.