Il cattolico, così come l’abbiamo conosciuto tra la fine dell’Ottocento e la fine del Novecento, non esiste più. Quel cattolico, insomma, che era balzato all’onore della storia e che aveva riempito pagine e pagine di volumi, di tesi di laurea, di convegni e che s’era imposto come soggetto socio-politico, protagonista di una stagione costitutiva della nostra nazione dal Risorgimento alla Ricostruzione. Fenomeno tipicamente italiano, questo exploit sociale. Fenomeno che ha spiazzato per molto tempo la storiografia nazionale che – prima di Gramsci – quasi non s’era resa conto che questi cattolici facevano sul serio e costituivano una “questione” significativa per il Paese. Ad accorgersi del peso specifico del Movimento cattolico, dunque, non sono stati affatto i cattolici, ma gli altri. Perché ad un popolo segnato dalla fede, appariva naturale gettarsi nella mischia nel momento in cui il Papa era sotto attacco e l’identità cristiana minata dai miti del progresso e della modernità. Eppoi, non bisogna dimenticarlo, un ruolo speciale ce l’ha la grande stagione della dottrina sociale della Chiesa che, con la Rerum Novarum di Leone XIII, apre la strada ad un’altra storia e soprattutto, rimette la Storia stessa al centro delle preoccupazioni dei credenti.
Se pure contrasti vi sono, com’è naturale in ogni aggregazione umana, non v’è dubbio che questa stagione è essenzialmente una straordinaria occasione identitaria, di definizione e rafforzamento di un’appartenenza.
Tale processo di identificazione è generale, garantito dal pontefice e dall’intera gerarchia ecclesiastica e non è messo in dubbio che da piccole élites e su temi specifici: innanzitutto la conciliazione con lo Stato, nel momento più duro dello scontro tra la Roma civile e la Roma religiosa, dopo il 1870; eppoi su singoli temi sociali e infine su appartenenze politiche alternative. Così sarà tra popolari e cattolici attratti dai partiti liberali, così sarà con l’avvento del fascismo; e così sarà nella grande stagione democristiana con le infatuazioni a sinistra dei cattolici comunisti e dei cristiani per il socialismo. Ma si tratta, come detto, di minoranze. E soprattutto di minoranze intellettuali.
I distinguo, semmai, vengono digeriti e assorbiti sempre all’interno di un mondo composito, ma fedele, capace di offrire cittadinanza alle differenti anime, alle varie pulsioni e perfino agli inevitabili interessi. E tale solidità si radica innanzitutto nell’incondizionata adesione di tutti i cattolici al magistero sociale della Chiesa.
Nel 1891 la Rerum Novarum di Leone XIII benedice solennemente la strada già aperta da qualche decennio all’impegno sociale del popolo cattolico. Attraverso la difesa dei più deboli dai processi più cruenti della modernità, i cattolici rivendicano una cittadinanza piena nel nuovo Stato. Istruzione, lavoro, diritti, libertà, famiglia, cultura… La pre-politica vede i cattolici protagonisti. Ma la cittadinanza ha uno sbocco inevitabile: l’impegno politico. Certo questo è decisamente più divisivo, ma la dottrina sociale e il magistero sono lì a vigilare che le differenze non siano distruttive.
La stagione pre-politica è certamente la più interessante dell’esperienza cattolica. Passato nella quasi totale indifferenza culturale, almeno fino ai primi anni Sessanta, il Movimento cattolico si impone all’attenzione degli storici nel momento in cui ci si domanda da dove venga quel largo consenso che sorregge l’esperienza politica della Democrazia Cristiana. Gramsci insegna, come già si è accennato. Quel successo viene da un impegno decennale di conquista della società. Insomma senza pre-politica non vi può essere alcuna esperienza politica solida e durevole.
I cattolici tra Otto e Novecento hanno innanzitutto un’idea chiara di società, poi avranno idee chiare sull’idea di Stato. E il tutto è colatura diretta della parola del Papa e dell’impegno di vescovi e sacerdoti.
Il magistero sociale della Chiesa, con i suoi documenti storici, che nell’arco di un secolo, dalla Rerum Novarum di Leone XIII conduce alla Laborem Exercens di Giovanni Paolo II, addita al popolo cristiano vie chiare e definite. Si tratti dei sistemi economici delle nazioni, della struttura e del ruolo dello Stato in economia, della dignità del lavoro, del valore costitutivo della famiglia, la parola del Papa diviene inevitabilmente un sigillo identitario, definizione per nulla vaga di un popolo che ha un nome e uno sbocco sociale e poi politico. Perché dignità sociale nel lavoro e cittadinanza sono strettamente connessi, sono una l’evoluzione inevitabile dell’altra.
Perché sia venuta meno tale dimensione identitaria è cosa complessa. Da una parte ha avuto un peso decisivo l’allentamento dei legami psicologici che tenevano allacciati i credenti al mondo morale che dalla fede sboccava in un universo di comportamenti consolidato. Sempre più la fede e il patrimonio etico sedimentatosi in secoli di esperienza umana, è divenuto una sorta di supermercato – come annotava alla fine degli anni Novanta lo storico Giorgio Rumi – emozionale che ha trasformato un universo compatto in una sorta di self service comportamentale, variegato e vago. Una fede trasformatasi da esperienza vissuta e, talvolta, drammaticamente patita, ad antidepressivo. Un’esperienza di fede ridotta a prodotto pronto ad essere consumato, e soprattutto, sottratto all’autorevole mediazione del sacerdote, s’è presentata sul terreno agitato della post-modernità come un optional.
Tanta parte in questa crisi identitaria l’ha avuta poi la crisi della politica che all’inizio degli anni Novanta ha agitato la vita civile italiana, con annessa l’implosione della Democrazia Cristiana. Il nuovo panorama politico, le nuove interpretazioni al ribasso del patrimonio culturale e socio-politico cattolico, hanno contribuito alla diaspora cattolica e soprattutto a calamitare i cattolici verso nuove identità. La fede è divenuta sempre più questione privata. Tant’è vero che le poche esperienze di mantenimento dell’identità cattolica in politica sono state fallimentari.
L’annacquamento ideologico ha fatto il resto. Da destra a sinistra i cosiddetti cattolici hanno trovato una casa adeguata e per nulla in contrasto – almeno nello spazio di una coscienza dilatata – con il patrimonio ideale radicato Oltretevere.
Senza un alfabeto certificato perfino l’essere cattolico, il definirsi cattolico, s’è ritrovato in un terreno melmoso, in una melassa (parola cara a Rumi), in cui hanno trovato cittadinanza echi del Vangelo, un po’ di yoga, suggestioni buddiste, e poi un pizzico di veganesimo e di pulsioni ecologiste.
Cattolico è così divenuta categoria vaga, anemica, facilmente sostituibile con un generico cristiano, un ambiguo fedele, un vago credente, praticante o meno. La questione si riduce così alla domanda: fedele a chi? Credente in che?
Lo spostamento dello stesso magistero dall’ambito sociale a quello ambientale ha contribuito ad innalzare la natura a categoria dello spirito e ad accostarla quasi a Dio stesso. Immanenza e trascendenza si confondono così in un universo liquido in cui ciascuno raccoglie quel che gli serve per dare apparentemente senso alla propria esistenza demandando tutto il resto alla sfera della coscienza privata, della mentalità, della moda.
Così, se – come ho sentito dire da un sacerdote – il cristiano si qualifica per il suo impegno, con echi volterriani, a prendersi cura del giardinetto comunale, quell’universo che la parola cattolico definiva, fatto non solo di scelte civili, ma di scelte private, di morale matrimoniale, di uso del denaro, di solidarietà, etc. si ritrova spappolato in infiniti mondi che convergono di volta in volta per aggregazioni emotive. E tutti questi mondi non solo guardano a Roma con simpatia, ma si sentono legittimati di volta in volta a definirsi parte integrante di un universo nebbioso in cui – perdiana – Qualcuno dovrà pur esserci.