Il 2019 ha concluso il suo corso con un mercato del lavoro che, pur registrando un leggero aumento del tasso di occupazione, non lascia tranquilli né quelli che sono inseriti nel mercato del lavoro, né quelli che ambiscono a entrarci. Le ragioni sono note. Il sistema produttivo italiano, se togliamo la quota di imprese legata al mercato dell’export, è rimasto indietro rispetto ai Paesi industriali con cui possiamo competere. Siamo rimasti indietro per scarsità di investimenti, innovazione e riforme e quindi la ripresa è avvenuta a basso tasso di produttività. Il risultato è un impoverimento complessivo dei lavori che sono stati offerti nell’ultimo periodo.
Come già illustrato da diversi articoli apparsi sul Sussidiario in queste ultime settimane, il dato complessivo degli occupati ha il segno positivo, ma c’è un calo delle ore complessivamente lavorate. Sono aumentati i lavori a tempo determinato e il part-time involontario. La continua campagna di propaganda a favore di misure che avrebbero restituito dignità al lavoro ci ha consegnato una realtà molto diversa. L’insieme di norme che avrebbero dovuto assicurare un passaggio verso i contratti a tempo indeterminato, ha in realtà favorito la scelta per contratti a tempo determinato, spostato verso partite Iva lavoratori in realtà con monocommittenza, espulso lavoratori che, seppur con contratti a tempo determinato, avevano continuità di impiego e limitato il ricorso alla somministrazione, seppure sia un contratto che ha ampia tutela. Abbiamo quindi un aumento di relazioni di lavoro precario, un ritorno del dualismo fra impieghi con ampie tutele e settori a bassa tutela del lavoro, e una ripresa degli inserimenti al lavoro dei giovani che favoriscono l’uso di strumenti (stages e tirocini non curricolari) che non sono in realtà contratti di lavoro.
Questo è uno dei tanti paradossi del dibattito strabico che caratterizza le questioni del lavoro. Da un lato si aumentano le tutele per chi già gode di una posizione di forza sul mercato del lavoro, dall’altro non si bada a tutele, ma l’importante è fare finta di inserire al lavoro qualche migliaio di giovani.
È così che si è perso un tempo infinito per definire come considerare il lavoro gestito dalle piattaforme. Concerne certo un’innovazione del mercato determinata da innovazioni tecnologiche e organizzative, ma riguarda qualche migliaio di persone e con interessi talvolta divergenti fra chi chiede garanzie da lavoratore autonomo e chi vorrebbe da subito un lavoro subordinato. Ma invece i 350 mila tirocini non curriculari non fanno notizia. Eppure sono giovani, spesso sostenuti dal programma di Garanzia Giovani con fondi europei, prendono da 400 a 800 euro al mese senza contributi, perché non si tratta di contratto di lavoro, le Regioni si gratificano con norme che facilitano il ricorso a questi contratti che faranno crescere solo il numero di quanti cercheranno di emigrare.
I dati diffusi a fine anno dicono che il 50% circa dei tirocinanti trova lavoro entro i 6 mesi dal tirocinio e di questi il 50% viene assunto nell’impresa dove ha svolto il percorso professionale. Abbiamo quindi che il 25% dei giovani hanno uno sbocco lavorativo coerente con quanto appreso nel tirocinio. Un dato che dovrebbe farci subito dire che i tirocini non curriculari vanno abbandonati. Perché avere un inserimento con contratto senza tutele né contributi se la sua efficacia è così scarsa? Dovremmo avere un movimento sindacale e politico che, volendo tutelare i giovani nel lavoro, punti ad allargare l’uso dei contratti di apprendistato, e così metta da parte tutte le forme di non lavoro con contratti che salvaguardano la fase formativa e di inserimento ma che tutelano il lavoro di qualità e il lavoratore.
Dato che però il lavoro è uno dei temi caldi anche per la nuova vulgata populista, già nei primi giorni dell’anno sono uscite proposte che hanno a cuore il tema. Ci saremmo aspettati qualcosa sui tirocini e nuove proposte per il lavoro giovanile, o magari un colpo di genio per rimettere in funzione i servizi del lavoro con l’assegno di ricollocazione tornando a separare le misure di lotta alla povertà da quelle di politica attiva per il lavoro. E invece con grande fantasia sia il populismo a 5 stelle che quello dell’estremismo di sinistra hanno lanciato l’idea di ridare vita all’articolo 18.
Evidentemente né Speranza, né Di Maio perdono troppo tempo a documentarsi nel merito dei problemi. Saprebbero altrimenti che già nei mesi scorsi una serie di sentenze della magistratura ha limitato l’impatto che le riforme del lavoro introdotte con il Jobs Act ha avuto sulle norme contrattuali e i licenziamenti. Ma ciò che colpisce maggiormente è che ciò che viene sbandierato sarebbe oggi una norma dannosa per i lavoratori impiegati nei settori più esposti al precariato o che sono impiegati con contratti che non avrebbero tutele dal ritorno a una norma che non è più in grado di assicurare ai lavoratori di oggi le tutele per cui era stata inserita, a fine anni ’60, nella nostra legislazione.
Questo Governo è nato per frenare una deriva populista che rischiava di aprire un deficit ingestibile nella nostra spesa pubblica. Convivono forze che non hanno molti punti in comune e difficilmente sarà possibile definire programmi di riforma di grande portata. Solo alcuni esponenti del Pd, ormai assuefatti a scambiare i sogni con la realtà, possono pensare che il populismo giallo sia convertibile in un programma di riforme progressiste. Ci vorrebbe però un sano bagno di realismo. Visto che di disegnare il futuro non sono in grado potrebbero almeno concordare con il principio di non farci tornare al passato. Tengano sotto controllo i conti pubblici, riportino alla normalità le norme della giustizia e lascino lavorare imprese e sindacati. Se non siamo in grado di andare avanti stiamo fermi, meglio che andare indietro.