Nei primi dieci giorni del 2020, anno bisesto, si sono registrati attentati mortali, lanci di missili, manifestazioni oceaniche per invocare cruente vendette. Intanto, nei cassetti della speaker della Camera Usa è in caldo la procedura di impeachment verso il Presidente degli Stati Uniti. Insomma, ci si avvia alla tempesta perfetta. Anzi, no. Mai le Borse sono state così euforiche, impegnate ad abbattere giorno dopo giorno record come birilli. Venerdì mattina l’indice Msci Global, basato sulle 49 più importanti Borse del pianeta, è salito a un nuovo massimo sulla spinta dei nuovi livelli registrati dai mercati del Giappone e dai tre indici principali Usa. Alla festa partecipa anche l’Europa: lo Stoxx 600 è al top, sotto la spinta della Borsa tedesca.
Quali sono le motivazioni del rally? Ci sono almeno tre ragioni per spiegare l’attuale stato di grazia dei mercati finanziari. Tanto per cominciare, l’America è oggi molto meno dipendente di un tempo dal greggio del Golfo Persico. Un po’ perché il consumo di petrolio per unità di Pil Usa è sceso da 100 (base 1973, l’anno del primo shock petrolifero) a meno di 40 (dato del 2019) e un po’ perché lo sviluppo delle tecniche alternative di estrazione di petrolio e gas naturale dagli scisti bituminosi del Texas e dell’Oklahoma ha ridotto la dipendenza energetica americana dal greggio importato, ormai in caduta libera. La leadership economica si combina così con la supremazia strategica.
La seconda ragione sta nel governo della politica monetaria attraverso i tassi bassi grazie anche alla “immoral suasion” praticata da Donald Trump che ha piegato le resistenze dalla Federal Reserve. I tecnici delle banche centrali hanno ormai steso una robusta rete di protezione del Toro a livello planetario. Vale per l’Europa, che persevera nel Qe promosso da Mario Draghi in attesa di azioni di fiscal policy che la Germania, al di là delle dichiarazioni di principio, è pronta a mettere in pratica all’insegna dell’energia verde.
Vale per le azioni, ma anche per le nuove emissioni obbligazionarie: tutta la carta arrivata sul mercato dall’inizio di gennaio è stata infatti assorbita senza scossoni sia per quanto riguarda i titoli di Stato dell’Eurozona, sia per i corporate bond di Unicredt, Intesa e Crédit Agricole fino al bond di Salini Impregilo (600 milioni).
Vale per l’Asia, a partire della Cina decisa a garantire un atterraggio morbido dell’economia, ma soprattutto per gli Usa. L’altro giorno Richard Clarida, l’ideologo del board della banca centrale, ha sottolineato che i tagli dei tassi dello scorso anno sono arrivati al momento opportuno e che la politica monetaria è ben posizionata per il nuovo anno. Ovvero, nonostante il tasso di disoccupazione sia ai minimi degli ultimi 50 anni, il mercato del lavoro non sta ancora creando pressione per l’inflazione, che il banchiere prevede si avvicini “gradualmente” all’obiettivo simmetrico del 2%. Perciò le reti di protezione già presentate come temporanee non verranno tolte nemmeno in caso di accelerazione dell’economia: Fed e Bce investono 3 miliardi d dollari al giorno per iniettare liquidità ai mercati, una bella garanzia per il rialzo del 2020.
Infine, il motivo più importante: la settimana prossima una delegazione cinese ad altissimo livello (anche se non vi figura il presidente Xi) arriverà negli Usa per la firma dell’accordo commerciale relativo alla prima fase dei negoziati sui dazi, quello che interessa trasferimenti di tecnologia, proprietà intellettuale, prodotti alimentari e agricoli. Se non ci saranno intralci, si profila un copione favorevole per i mercati, dopo mesi di stress legati alle tariffe.
Insomma, le ragioni per scommettere sulla durata del Toro non mancano. Come si augura Donald Trump che, per niente preoccupato (all’apparenza) per l’impeachment, punta sull’economia per una rielezione che, allo stato delle cose, appare sempre più probabile, ovvero il dato chiave che è destinato a condizionare l’agenda politica e finanziaria dei prossimi mesi.
Sul fronte dei commerci, dopo la stretta del protezionismo, si riapre una finestra importante per l’export, una buona notizia per l’Italia. Speriamo che l’atteggiamento confuso dell’esecutivo in politica estera e l’assenza di scelte in grado di sostenere l’innovazione non pregiudichino le nostre possibilità. Al proposito non è incoraggiante che i rappresentanti di due dei quattro partiti della maggioranza abbiano cominciato l’anno parlando della reintroduzione dell’articolo 18, proprio in coincidenza con i primi veri frutti positivi del Jobs Act che emergono con l’aumento dell’occupazione: possibile che in un mondo che avanza non ci sia niente di meglio che guardare al passato che comunque non torna?