È svolta nella crisi libica. I due contendenti, Fayez al Sarraj e Khalifa Haftar, si trovano entrambi alla corte di Vladimir Putin a Mosca per la firma di un accordo volto a definire le condizioni del cessate il fuoco, già in vigore dalla notte di sabato, 11 gennaio. Haftar ha chiesto tempo fino a stamattina prima di firmare, ma il suo potrebbe essere un modo per ottenere ulteriori vantaggi da una posizione negoziale di forza.
L’accordo, secondo le indiscrezioni circolate sulla stampa internazionale, oltre a stabilire il ritiro delle forze di entrambi gli schieramenti dalle zone di maggiore conflitto nelle rispettive postazioni, prevederebbe clausole dalla chiara valenza politica.
Tra queste, il blocco dell’invio di soldati da parte della Turchia di Erdogan; l’invio di una delegazione russa per la supervisione della tregua (in coordinamento con una presenza internazionale di monitoraggio dell’Onu); il disarmo di alcune milizie (presumibilmente quelle islamiste legate ai Fratelli musulmani, armate e finanziate da Turchia e Qatar) che hanno sin qui appoggiato il governo di Sarraj a Tripoli (Gna); l’attribuzione all’Esercito Nazionale Libico di Haftar della responsabilità della lotta al terrorismo e di garantire la sicurezza dei pozzi di gas e petrolio.
L’accordo, inoltre, dovrebbe contenere misure tese a delineare una divisione dei compiti tra il Gna e il Parlamento di Tobruk che sostiene Haftar. Tali misure fungerebbero da base per una ridefinizione più ampia degli incarichi all’interno dello stesso Gna, oggetto di prossimi negoziati.
In sostanza, se le indiscrezioni saranno confermate, l’accordo sancirebbe la vittoria del fronte di Haftar (che comprende anche Egitto ed Emirati Arabi Uniti), con Sarraj costretto ad accettare un compromesso al ribasso a garanzia della propria sopravvivenza, quanto meno nel breve periodo. Se Erdogan non avesse inviato rinforzi – presi tra i combattenti estremisti al servizio di Ankara in Siria -, la forza contrattuale di Sarraj al tavolo delle trattative sarebbe stata ancor più ridotta.
La Turchia ha di per sé riconosciuto la preminenza del ruolo della Russia, che con la sigla a Mosca dell’accordo per il cessate il fuoco tra Sarraj e Haftar si è affermata quale principale garante della cosiddetta riconciliazione nazionale libica.
La Russia è riuscita dove hanno invece fallito Francia e Italia, le cui divisioni e rivalità hanno finito per giovare anche alla Germania. La cancelliera Angela Merkel, precipitatasi al Cremlino domenica 12 gennaio per colloqui con Putin, anticipando Sarraj e Haftar, ha annunciato lo svolgimento della tanto attesa Conferenza di Berlino per domenica 19 gennaio. Merkel ha infatti premura di apporre il suo sigillo sulla risoluzione della crisi, garantendo alla Germania un ruolo di leadership tra i paesi europei in coordinamento con Russia e Turchia. Un esito, questo, accettabile per Regno Unito e, oltreoceano, Stati Uniti, per i quali la Libia è quasi esclusivamente una questione di sicurezza e anti-terrorismo.
Lo è meno per la Francia, che non è riuscita a soddisfare le sue velleità neo-colonialiste in Nord Africa, dopo essere stata malauguratamente l’artefice principale della caduta del regime di Gheddafi. Tuttavia, Parigi riuscirà molto probabilmente ad avanzare i propri interessi, potendo contare su un solido rapporto con Haftar e sulla necessità di Sarraj di una sponda diplomatica francese per rafforzare la propria posizione.
A restare con il proverbiale cerino in mano sembra invece l’Italia. Al pastrocchio dell’8 gennaio, quando Sarraj si è rifiutato di atterrare a Roma a causa dell’accoglienza da capo di Stato riservata da Giuseppe Conte ad Haftar, ha rimediato lo stesso presidente del Gna, convincendosi a incontrare il premier italiano l’11 gennaio, sempre per l’esigenza di mantenere vivi i rapporti con i governi europei, evitando che orientino il proprio supporto esclusivamente verso Haftar.
Il dato però non cambia: l’Italia oggi è fuori dai tavoli che contano sulla Libia e può sperare di trovarvi un posto a sedere solo se le sarà concesso, in particolare da Turchia e Russia. L’Italia, infatti, sa di essere un incomodo per gli “alleati” europei e guarda con preoccupazione alla Conferenza di Berlino, dove con ogni probabilità sarà relegata a un ruolo di fatto marginale, sebbene Merkel potrebbe concedere qualche photo opportunity che faccia sentire Conte importante.
A parole, il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, continua a sostenere l’importanza del vertice nella capitale tedesca, ma ha anche proposto un improbabile tavolo tecnico a tre tra Roma, Mosca e Ankara, concorrenziale rispetto al processo che sarà lanciato a Berlino. Sintomatico dell’affanno e delle difficoltà del governo è anche il corteggiamento operato da Di Maio nei confronti della Turchia, dopo che aveva invocato pesanti sanzioni contro Erdogan per l’invasione anti-curda nel nord della Siria.
Alla conferenza del Cairo dell’8 gennaio, il leader politico del M5s non ha firmato la Dichiarazione siglata da Francia, Egitto, Grecia e Cipro, perché condannava l’atteggiamento aggressivo di Ankara in Libia e nel Mediterraneo. Si è poi recato a Istanbul per un vertice con il ministro degli Esteri turco, Mevlut Cavusoglu, durante il quale, tra abbracci e sorrisi, ha lanciato l’idea del tavolo tecnico tripartito.
Dopo tante incertezze, senza dimostrarsi un alleato affidabile né per Sarraj, né per Haftar, l’Italia è rimasta isolata nel mezzo a meditare sulle conseguenze fallimentari della sua politica, inaugurata dai governi Renzi e sviluppata da quelli Conte sulla base della pretesa di poter tenere i piedi in più scarpe come “strategia” vincente. Sicurezza, energia, business, questione migranti: gli interessi italiani in Libia sono ora alle mercé di altre cancellerie e della loro benevolenza.