Apparentemente, tutto si è normalizzato. Per usare un termine che piace a chi parla in maniera professionale, siamo in piena de-escalation. La situazione fra Iran e Stati Uniti, al netto della tensione che resta altissima, pare rientrata in un alveo di conciliabilità, non fosse altro per la pietosa ammissione che Teheran ha dovuto compiere rispetto alle proprie responsabilità dirette nell’abbattimento del Boeing carico di civili e le conseguenti proteste di massa nelle piazze. In Libia, tutto è ormai nelle mani di Russia e Turchia, come da copione. E, conoscendo Vladimir Putin – al netto della scena madre posta in essere dal generale Haftar, andandosene da Mosca senza firmare la tregua, in attesa di conquistare prima il bersaglio grosso sul campo – dubito che lo Zar accetterà facilmente un “no” come risposta definitiva alla sua domanda di cessate-il-fuoco permanente.
Persino la Cina, la stessa che il 1 gennaio ha liberato nel sistema 400 miliardi di liquidità attraverso l’ennesimo taglio dei requisiti bancari di riserva, per gli Usa non sarebbe più un soggetto che manipola la sua valuta: verrebbe da dire che, se lo fa al fine di unirsi al coro del Qe globale e mascherato, allora va bene manipolare ma non sottolizziamo. La tregua commerciale, poi, sarebbe alle porte con la firma della mitologica Phase One, accordo che appare chiaro e identificabile quanto il sarchiapone dell’indimenticato Walter Chiari. Wall Street, nemmeno a dirlo, veleggia trainata dai suoi cavalli di razza, Apple e Tesla, come ci mostra questo grafico alquanto eloquente: tutto meraviglioso in questo inizio di 2020 che pareva invece il prodromo della Terza guerra mondiale, unicorni a perdita d’occhio.
Attenzione, però, al nostro orticello. Alla nostra Italia provinciale e messa all’angolo dell’Europa che conta, persa come al solito in dispute la cui utilità è paragonabile a quella di un maglione di lana il 15 di agosto su una spiaggia siciliana. Il futuro del Pd, ovviamente da ricercarsi nel chiuso di un’abbazia come in un remake de Il nome della Rosa, e la legge elettorale, il più classico dei tormentoni italici. Siamo punto e a capo, non cresceremo mai. In compenso, ci sono un paio di variabili a spezzare la monotonia: il caso Salvini-Gregoretti, destinato a tradursi in una situazione win-win per il segretario leghista e, soprattutto, il voto in Emilia-Romagna del 26 gennaio, vera pietra miliare della vita del Governo.
Quella data, ormai prossima, rappresenta il Rubicone: in molti lo negano, altrettanti lo rivedicano, in pochi lo ignorano. Tutto sembra legato a quel voto, questione di vita o di morte. In effetti una parte di verità esiste: nella seconda metà di gennaio che comincia domani, parecchi nodi sistemici potrebbero venire al pettine per il nostro Paese in questo anno spartiacque a livello globale. Ma non passano dal duello che si combatte fra Piacenza e Ferrara. No, passano più dal Copasir. Ovvero, dal Comitato parlamentare di controllo sui servizi segreti. Insomma, roba seria.
Già, perché con mossa senza precedenti, l’organismo ha deciso di far partire pressoché immediatamente una serie di audizioni di altissimo livello e grandissima delicatezza per il sistema che aveva in programma da tempo. Direte voi, cosa c’è di strano allora? Il timing d’urgenza, appunto. E la scelta di chi verrà audito per primo fra i soggetti ritenuti “sensibili” per la sicurezza della Stato e a rischio scalata o attacco estero. Si sa, in tempi di disputa sul 5G, di spionaggio industriale cinese, di fusioni e acquisizioni di soggetti spesso forzate da necessità di bilancio e tenuta di quote di mercato in un contesto industriale ormai votato al gigantismo, è facile che qualcuno si infili nei meandri dei segreti più inconfessabili di un Paese, nella mitica “stanza dei bottoni”. Figuriamoci, poi, in un momento in cui gli stessi servizi segreti parlano chiaramente del rischio sempre crescente rappresentato da attacchi hacker e cyber-terrorismo a livello globale. Insomma, da chi si partirà con le audizioni?
I primi dovrebbero essere Gennaro Vecchione (Dis), Mario Parente (Aisi) e Luciano Carta (Aise), ovvero i vertici dei nostri apparati di intelligence, gli stessi che avevano già lanciato l’allarme in materia due anni fa con la relazione del Dis sul rischio di scalate ostili dall’estero di aziende strategiche nazionali. Poi partirà la sequenza degli organi di vigilanza e controllo: oltre al Mef (Ministero economia e finanze), saranno sentiti i vertici di Banca d’Italia, Consob, Covip (Commissione di vigilanza sui fondi pensione), Ivass (Istituto per la vigilanza sulle assicurazioni) e Guardia di Finanza. Insomma, quello che possiamo chiamare l’establishment. O, un neologismo, il Mid-State. Poi, primi dell’elenco fra gli auditi esterni, i vertici delle banche. Perché signori, per quanto l’operazione si presti a mille interpretazioni anche dietrologiche e questo le garantisca giocoforza una sorta di diritto all’oblio dalla grande opinione pubblica, a favore di temi di scottante attualità come il Mattarellum, dietro l’intera operazione c’è soltanto una finalità: capire cosa si sta muovendo dietro Generali e Unicredit. Punto, il resto sono frattaglie di San Macuto.
Il timore inconfessabile, almeno apertamente? La Francia, presieduta da un molto attivo – e tutt’altro che politicamente morto, come invece qualche vate preconizzava – prodotto della Banca Rothschild. E qui, attenzione a non cadere però nei toni da tribuno sovranista. Se siamo arrivati a questo punto, ovvero con l’Organismo di controllo dei servizi segreti costretto a darsi una svegliata con quasi quattro anni di ritardo sul primo, vero campanello d’allarme suonato attorno a uno dei “gioielli”, è perché nel frattempo, parlando di banche, siamo stati noi a invocare continuamente e in maniera sempre più sistemica l’arrivo del “cavaliere bianco” dall’estero per toglierci le castagne dal fuoco.
Che dire di Credit Agricole e il suo intervento sulle Casse di Risparmio di San Miniato, Cesena e Rimini in amministrazione controllata, salvo poi garantirle shopping da vera e propria semicolonizzazione con le cessioni delle filiali di Intesa-San Paolo e il binomio con Cariparma? E che dire dei fondi Usa come BlackRock, tirati letteralmente per la giacchetta nel tentativo di salvare Carige e poi dileguatisi quando sembrava fatta per il loro ingresso nel capitale della banca commissariata? Insomma, se vuoi che qualcuno dall’estero venga a darti una mano, parlando di banche, appare lunare pensare che lo faccia gratis e per amore di Patria (oltretutto, altrui).
E quale sarebbe stato il campanello d’allarme di cui parlavo prima, quello suonato quattro anni fa? La certificazione, in sede di presentazione dei dati semestrali il 10 maggio del 2016, da parte dell’allora ad di Unicredit, Federico Ghizzoni, della non necessità per l’istituto di aumenti di capitale. Insomma, tutto ok. Dopo sei mesi, con approvazione dell’assemblea dei soci ratificata il 12 gennaio 2017, Unicredit dava vita al più grande aumento di capitale della sua storia, qualcosa come 13 miliardi di euro. Alla guida dell’istituto come Ceo, l’attuale numero uno, il francese Jean Pierre Mustier. L’uomo che recentemente ha comunicato una nuova, massiva ondata di esuberi in sede di presentazione del piano di contenimento costi. Il timore? Nessuno lo dirà apertamente, ma basta fare due più due, senza accusare nessuno di niente lasciando parlare il curriculum vitae: Jean-Pierre Mustier proviene da Société Générale, l’istituto che in molti vedono come interessato ad acquisire proprio Unicredit per diventare leader europeo in un momento agonico e da pre-pensionamento da leadership per Deutsche Bank.
Ma di mire transalpine si parla anche per Assicurazioni Generali, la vera “cassaforte” del Paese, il vero pacchetto di controllo dell’azionariato di quell’azienda chiamata Italia. Non fosse altro per la quantità spropositata di Btp che detiene. Lasciate stare polizze, filiali, risparmi e conti correnti e pensate solo a questo: al netto di oltre 280 miliardi di debito italiano nella pancia già oggi degli istituti transalpini, come mostra questo grafico, cosa accadrebbe se anche Generali e Unicredit finissero sotto controllo diretto francese? Chi gestirebbe, di fatto, il nostro debito e la sua leva “politica”? Ma, soprattutto, continuerebbe a farlo detenere?
E anche qui, attenti a gridare al golpe eterodiretto e finanziario: siamo stati noi a creare il cosiddetto doom loop fra banche e Tesoro, ovvero detenzioni garantite di titoli di Stato in quantità industriale da parte del nostro settore del credito a fronte di una politica che si sarebbe sdebitata verso l’acquirente marginale con il solito occhio di riguardo da parte del legislatore. Se concentri il tuo potere – ma che è anche la tua kriptonite – in pochi siti, conosciuti a tutti e spesso e volentieri insicuri e facili alla necessità di ristrutturazione, poi non puoi lamentarti se ti vengono a rubare in casa. Bene, che qualcosa non andasse in maniera troppo lineare dentro il primo gruppo bancario del Paese lo sappiamo da quattro anni, ci sono stati al riguardo 13 miliardi di indizi.
Che i servizi avessero fiutato qualcosa di più sistemico e pericoloso di mere carenze gestionali e di capitale, lo sappiamo dalla relazione del Dis del 2018. Ora, di colpo, nel gennaio del 2020 il Copasir scopre l’urgenza della pratica. Bene. Anzi, benissimo. Ma perché proprio ora, cosa giustifica questa urgenza, in pieno caos Atlantia, salvataggio della Popolare di Bari, ma, soprattutto, alla vigilia dell’ennesima battaglia per il controllo di Mediobanca, il caveau del potere italiano e la sala macchine che muove anche i fili dentro Generali? Sicuri che, tributando il massimo rispetto verso i cittadini di Emilia-Romagna e Calabria, il mese di gennaio sia da ritenersi così importante, quasi fondamentale per il nostro Paese, solo per due misere tornate amministrative?
Attenzione, qualcosa è in ebollizione. I tempi supplementari della sindrome da 1992 in versione 2.0 che ha caratterizzato l’italico e tormentato 2019. Perché ricordate sempre che il grande prodromo del reset ci fu l’anno dopo. Nel 1993.