La Corte costituzionale ha fatto slittare la decisione sull’ammissibilità del referendum chiesto dalle cinque Regioni governate dal centrodestra (e voluto in sostanza dalla Lega) per abolire il proporzionale dalla legge elettorale. La decisione era attesa per ieri ma la Consulta si è presa altro tempo: del resto, la scadenza per emettere la sentenza è il 10 febbraio. Il tema è di estrema complessità tecnica ma ogni pronunciamento avrà soprattutto un risvolto politico, ed è questo il varco che attende la Corte.
Nella storia d’Italia, il primo referendum mai ammesso dalla Consulta sulla legge elettorale fu quello proposto da Mario Segni, che a colpi di forbice sulla normativa esistente propose tre quesiti. La Corte ne bocciò due ammettendo soltanto quello che tagliava il numero di preferenze per le liste della Camera, che dunque divennero uninominali. Di fatto si introdusse una variante di sistema maggioritario in un Paese che, dal 1946, aveva votato con un sistema proporzionale puro. Da quel referendum, svoltosi nel 1991 e approvato plebiscitariamente, il Parlamento giunse due anni dopo ad approvare la legge Mattarella che assegnava tre quarti dei seggi con il sistema maggioritario uninominale, e il restante 25% con un sistema proporzionale a liste bloccate e soglia di sbarramento al 4%.
Il Mattarellum funzionava: nelle elezioni in cui fu applicato (1994, 1996, 2001), dalle urne uscì una maggioranza chiara. È quello che ripropongono oggi i leghisti: via il proporzionale introdotto in ossequio al tripolarismo (centrodestra, centrosinistra, M5s) e ritorno a un sistema che favorisce il bipolarismo penalizzando i partiti minori. Questa impostazione è all’opposto della proposta di legge elettorale depositata alle Camere dopo la riforma della Costituzione che taglia il numero di parlamentari: una norma proporzionalista con soglia di sbarramento, ma dotata di meccanismi di recupero che dovrebbero salvare i vari Leu e Italia viva che stampellano l’attuale maggioranza.
Al di là del quesito tecnico sollevato dai leghisti, la Consulta è dunque a un bivio politico. Da un lato c’è la legge in vigore, approvata dopo che la stessa Corte aveva bocciato quella precedente (il Porcellum di Calderoli) aprendo la strada al ritorno del proporzionale: un sistema che l’attuale maggioranza intende sostanzialmente confermare. Dall’altro c’è la richiesta di riportare in sella un’impostazione la quale fu introdotta nientemeno che dall’attuale capo dello Stato, allora deputato Dc, e che garantisce maggiore stabilità.
Il rinvio deciso ieri segnala l’esistenza di un dibattito all’interno della Corte. Se passa l’opzione leghista, la maggioranza Pd-M5s-Iv-Leu dovrà ritirare la proposta di legge appena depositata. Verrebbe immesso un ulteriore elemento di instabilità all’interno della coalizione già traballante di suo. Forse sarebbe a rischio la stessa prosecuzione della legislatura. In ogni caso, ancora una volta, l’incapacità della politica di prendersi responsabilità e di assumere decisioni chiare apre spazi che, come al solito, vengono riempiti (in questo caso, loro malgrado) dai giudici.