La Legge di bilancio 2020 ci consegna il lascito di trovare oltre 47 miliardi di copertura per il prossimo biennio per evitare gli aumenti dell’Iva e delle accise sui carburanti inseriti nel provvedimento per la finalità di garantire il contenimento del debito pubblico. Ma questo “piccolo” problema sembra non preoccupare il Governo in carica, dato che nel giro di due settimane è riuscito a promettere che nel 2020 verranno messi in campo provvedimenti per ridurre le aliquote Irpef, per la riforma delle pensioni con quota 100 confermando l’anticipazione dell’età pensionabile, introdurre l’assegno unico per ogni figlio a carico ai nuclei familiari. Per cifre complessive che, a seconda delle ipotesi in campo, possono oscillare tra i 30-40 miliardi, con proiezioni crescenti sulla spesa pubblica futura. E senza calcolare le possibili conseguenze sul bilancio pubblico degli impegni assunti per l’Alitalia, l’ex Ilva, le ipotesi di allargare la platea dei beneficiari del provvedimento per la riduzione del cuneo fiscale sui salari, e le promesse ampliare gli investimenti per la protezione ambientale.
Pur tenendo conto del clima elettorale permanente che accompagna il dibattito politico, mi sembra che la soglia del buon senso, e del buon gusto, sia stata abbondantemente superata. Il principio di realtà prima o poi tornerà a imporsi, ma nel frattempo questo modo di fare politica finirà per produrre nuove fratture con l’opinione pubblica e un’ulteriore perdita di credibilità delle forze politiche.
Il tema della riforma delle pensioni quota 100, in questo senso, è esemplare. Gli esiti pratici dell’intervento varato dal precedente Governo confermano l’inutile spreco di risorse finalizzato a consentire a un nucleo sostanzialmente privilegiato di lavoratori di poter beneficiare di una pensione anticipata, senza particolari benefici per il mercato del lavoro e per l’occupazione. Il provvedimento legislativo, che terminerà i suoi effetti il 31 dicembre 2021, ci consegna il lascito di qualche milione di futuri pensionandi che si ritroveranno sostanzialmente allungata di 4-5 anni l’età di pensionamento.
Una conseguenza che ha fatto rapidamente dimenticare l’aspetto più iniquo del provvedimento, l’ulteriore privilegio offerto a una parte dei lavoratori che beneficiano delle pensioni prevalentemente calcolate con il sistema retributivo, e quello meno sostenibile: l’allargamento del divario tra il numero dei lavoratori che contribuisce a finanziare le pensioni e quelli che beneficiano della rendita pensionistica. Con effetti che saranno trasferiti in termini di costo di sostentamento delle pensioni in essere, e di riduzione del valore delle rendite soprattutto sulle generazioni che vedranno calcolata la loro pensione con il metodo contributivo.
Tale prospettiva non è differita nel tempo, sta già producendo i suoi effetti. Le basi delle contribuzioni versate all’Inps si stanno indebolendo rapidamente. I salari dei nuovi occupati nei settori dei servizi, con contratti a termine o a part-time, sono inferiori a quelle dei lavoratori che vanno in pensione. E altrettanto sta avvenendo nel mondo del lavoro autonomo, degli artigiani, dei commercianti e dei professionisti.
Molti provvedimenti legislativi, per la finalità di incentivare le nuove assunzioni, negli anni recenti le hanno sgravate in tutto o in parte dai contributi previdenziali, trasferendoli a carico dello Stato. Per contenere gli effetti della deriva della spesa previdenziale, e dei paralleli costi messi in carico allo Stato per sostenere le integrazioni per i minimi, il deficit strutturale dei fondi previdenziali dei dipendenti pubblici, gli sgravi contributivi per le assunzioni, oltre che per la spesa tipicamente assistenziale, sono tre le leve a disposizione: rivedere al ribasso le modalità di calcolo delle rendite, allungare l’età pensionabile sulla base delle aspettative di vita, non rivalutare in tutto o in parte le pensioni in essere.
La Legge Fornero, introducendo per tutti il metodo contributivo, l’attuazione vincolante dell’adeguamento dell’età pensionabile alle aspettative di vita e, cosa ripresa dai successivi governi, la parziale rivalutazione delle pensioni rispetto alla inflazione, aveva offerto soluzioni strutturali al sistema previdenziale. Pur condividendo la critica sulla drasticità dell’allungamento dell’età pensionabile adottata, che ha generato il problema degli esodati e imposto la successiva approvazione di interventi onerosi per rimediare l’errore, tornare indietro significherebbe provocare una deriva della spesa previdenziale e ulteriori effetti discriminatori verso le nuove generazioni.
Eppure il tema all’ordine del giorno è diventato proprio questo. I bersagli della riforma di quota 100 nelle proposte che circolano negli ambienti di governo e in quelli sindacali, sia pur con alcune eccezioni, sono rivolte a consolidare le pensioni anticipate, rendere meno certo l’allungamento dell’età pensionabile, ripristinare il sistema di rivalutazione delle pensioni precedente ai provvedimenti di limitazione adottati dagli ultimi 5 governi. Le proposte differiscono per l’intensità dell’anticipazione (la combinazione tra età e anni di contribuzione ovvero se metterla in relazione con le tipologie di lavoro svolto) e le modalità di calcolo delle pensioni anticipate (con la quota maturata con il sistema retributivo o il ricalcolo integrale con il sistema contributivo). Ma vanno tutte nella stessa direzione. E trascurano, nei fatti, due rilevanti criticità del nostro sistema pensionistico: come far fronte alle problematiche dei lavoratori anziani che perdono il lavoro negli anni di prossimità alla pensione, e che non corrispondono necessariamente con quelli che hanno anzianità contributive più lunghe, che potrebbe essere affrontata semplificando e potenziando l’attuale Ape sociale, e la diffusa precarietà dei percorsi professionali e contributivi di molti lavoratori oggettivamente penalizzata nel sistema di calcolo contributivo.
Sullo sfondo rimane il problema dei problemi: il basso tasso di occupazione che riduce anche la potenziale platea dei contribuenti del sistema previdenziale. Il semplice dimezzamento della distanza, circa 10 punti, che ci separa dalla media del tasso di occupazione nei paesi dell’Ue, equivalente a circa 2 milioni di occupati in più, rappresenterebbe la via maestra per dare risposte a buona a parte dei problemi evidenziati. Sempre ammesso che questa criticità venga considerata un problema serio da affrontare con politiche che trovano riscontri in moltissimi Paesi europei. Ma purtroppo non è così.