Caro direttore,
all’indomani della sentenza della Corte costituzionale sulla legge elettorale, un filo riflessivo è parso dipanarsi con immediata visibilità fra i commentatori: il rischio che le basi della democrazia repubblicana vengano insidiate – più o meno consapevolmente – proprio da coloro che si sentono e dicono investiti del compito di difenderla da presunte minacce “antidemocratiche”.
Sono risaltate subito, fra l’altro, prese di posizione provenienti da opinionisti di consolidato pensiero liberalriformista: notoriamente scevri da ogni empatia politico–intellettuale per la Lega. Alcuni toni sono parsi oggettivamente preoccupati per lo scenario aperto dal ritorno del proporzionale puro; altri più nettamente critici per quanto stanno osservando ora sul delicato confine fra politica e istituzioni.
Il più franco è stato certamente Luca Ricolfi che non ha mostrato remore nel ritorcere contro la Consulta stessa il neologismo costituzionale “manipolazione”, coniato dalla sentenza. Per il sociologo, è la Corte ad aver – almeno oggettivamente – “manipolato” in corsa le regole elettorali. E i giudici costituzionali non appaiono del tutto immuni dal sospetto di aver assecondato sul piano legale–costituzionale un sentiment squisitamente politico da ricercare fra “i nostri governanti”: per i quali, evidentemente, “la democrazia è un sistema pericoloso, che abbisogna di periodiche revisioni per impedire che, quando il popolo perde il senno e pare intenzionato a votare i ‘cattivi’, questi medesimi cattivi abbiano la possibilità di giungere al potere”. Per il sociologo torinese – che oggi scrive per il Messaggero, dopo averlo fatto per La Stampa e Il Sole 24 Ore – “la manipolazione delle regole del gioco e il ritardo nel ritorno alle urne, finiscono per togliere dalla scena i problemi veri del paese e per ideologizzare il conflitto politico”. Il ritorno al proporzionale puro rischia quindi di ridurre in Italia il voto democratico “a sfida all’ultimo sangue fra chi è ossessionato dal problema dei migranti e chi lo è dal ritorno del fascismo”.
Molto accigliato è sembrato anche il politologo Angelo Panebianco. “C’è un nesso strettissimo – ha scritto nell’editoriale del Corriere della Sera – fra la sentenza e il risultato del referendum costituzionale del 2016. Allora, una maggioranza schiacciante decise che la democrazia acefala (con governi deboli, ricattabili e per lo più di brevissima durata), ossia il regime assembleare – che è una variante del parlamentarismo – scelto dai costituenti dopo la Liberazione, era esattamente ciò che gli italiani volevano conservare”.
Sempre sul Corriere, Paolo Mieli ha invece letto il passaggio italiano (tutti contro Matteo Salvini, con qualunque mezzo) in controluce su quello americano (idem contro Donald Trump). Le sue considerazioni non sono apparse meno problematiche: a cominciare dall’annotazione sul progressivo calo della fiducia dei cittadini Usa nella loro Corte Suprema (dal 47% nel 2008 al 37% odierno). Per l’ex direttore del Corriere, in ogni caso, l’avvitamento generato dall’avvento di Trump e dalla reazione democrat (con la rinuncia al contrasto politico e l’opzione mediatico–giudiziaria) farà perdere tutti: anzitutto la democrazia americana, soprattutto se la sua “crisi” dovesse protrarsi dopo una non improbabile rielezione di Trump.
Democrazia debole. Parlamentarismo “assembleare”, sempre meno capace di reggere il governo quotidiano del sistema–Paese. Premier trasformisti. “Nuovi fascismi” e “nuovi antifascismi”. È singolare come molti argomenti emergenti nel confronto politico corrente siano ambivalenti: proprio quando – come ha notato Ricolfi – il richiamo all’Italia degli anni Venti del secolo scorso sta diventando “ossessivo” nella narrazione del cosiddetto “fronte democratico”. I suoi teorici e pratici, peraltro, sembrano dimenticare che a distanza di cent’anni la storiografia è concorde almeno su una lettura: l’avvento della dittatura mussoliniana in Italia (come poi di quella hitleriana in Germania) fu l’esito di una crisi della liberaldemocrazia europea in parte non piccola attribuibile alle responsabilità dei governanti liberaldemocratici dopo la Grande Guerra.
Errori grossolani si mescolarono a miopie gravi anche se forse inevitabili. La spregiudicatezza fu spesso la risposta al panico. In Italia, fallì, fra altri, il più importante statista italiano di allora dopo Cavour: l’80enne Giovanni Giolitti. Il leader popolare Alcide De Gasperi – il miglior prodotto della lunga marcia del cattolicesimo sociale e democratico – dovette attendere un quarto di secolo e un’altra guerra mondiale prima di poter costruire in Italia una repubblica democratica e un partito di “democrazia cristiana” moderno e capace di distanza dalla Santa Sede. Dalla prima tornata elettorale dopo la guerra, nel 1919, il partito socialista uscì con una robusta maggioranza relativa (32,4%: la stessa forza data dagli italiani a M5s nel 2018 e poi alla Lega nel 2019): né Mussolini, né altri candidati del neonato fascismo riuscirono a entrare alla Camera. Nei tre anni successivi il socialismo italiano dovette però fare i conti con l’urto frontale dello squadrismo fascista, ma anche con una pulsione congenita alla frammentazione interna, confermatasi inguaribile fino ad oggi nella sinistra italiana.
Quando nel 1922 la spinta reazionaria alimentata anzitutto dalla grande industria lo spinse a Palazzo Chigi, Mussolini era un parlamentare di legittimazione ancora molto subbia e limitata. Era un outsider dell’Italia liberale, prima antagonista d’insuccesso nelle fila socialiste, poi arruolato come utile “corsaro” dai poteri forti di allora. Il partito fascista, dopo le elezioni (anticipate) del 1921 disponeva di soli 37 seggi su 535 e la gran parte era stata ottenuta da candidature accettate dai cosiddetti “blocchi nazionali”, i listoni apprestati da cattolici e liberali con un fine unico: frenare con qualsiasi mezzo l’avanzata socialista. L’avvento del futuro Duce – molto più che l’esito di una dinamica eversiva – fu il risultato complesso di una composita “resistenza” reazionaria del vecchio regime liberaldemocratico alla pressione dei profondi sconvolgimenti socio–economici prodotti dalla Grande Guerra.
Anche solo a livello suggestivo val la pena di ricordare che il monarca costituzionale Vittorio Emanuele III prima accettò che alla testa del governo si insediasse per due volte Luigi Facta: uno dei premier più deboli, insignificanti e dimenticati della storia dell’Italia unita. Poi il re non ebbe difficoltà a pilotare lui, a cavallo della marcia su Roma, il trasformismo italiano verso la dittatura. Usò lo statuto ma nei fatti seppellì l’Italia liberale. Né si può dimenticare che il primo governo Mussolini era di “coalizione nazionale”: ottenne una fiducia parlamentare netta sia alla Camera (306 sì, 116 no e 7 astenuti) sia al Senato “monarchico” (196 favorevoli e 19 contrari). Dell’esecutivo facevano parte, oltre al premier, due ministri fascisti, due popolari, due democratico–sociali, due liberali, un nazionalista, due militari (fra cui il generale Armando Diaz, il vincitore della Grande Guerra italiana), un tecnico indipendente (Giovanni Gentile, allora ancora protégé di Benedetto Croce, nume del liberalismo italiano). Mussolini non era affatto il Duce, allora. Era un premier quasi per caso, imposto al Parlamento dal re e da una parte dell’establishment per manipolare la maggioranza parlamentare e contrastare le spinte di cambiamento che provenivano dalla società italiana ammessa al voto con suffragio universale maschile.
Nel case study di un seminario storico-politologico sugli Anni Venti forse non sarebbe fuori luogo questo tema: l’indicatore di minaccia alla democrazia, oggi in Italia, è più Salvini o Giuseppe Conte?