Caro direttore,
il premier Giuseppe Conte starebbe premendo sugli Usa per ottenere via libera a un ruolo–guida per l’Italia in un intervento militare in Libia, all’indomani della conferenza di Berlino. L’iniziativa di Conte matura mentre la maggioranza giallo–rossa è sospesa su una bolla politico–ideologica connotata da ecologismo pacifista, rifiuto fermo di ogni comportamento violento, vigilanza liberal–democratica su ogni possibile ritorno di totalitarismi e orrori che hanno caratterizzato la prima metà del secolo scorso.
È stato all’inizio del 900 che l’Italia ha deciso di combattere la prima delle sue “guerre di Libia”. Quella successiva è coincisa con il secondo conflitto mondiale e la terza è stata condotta nel 2011 all’interno di una coalizione internazionale contro il regime del colonnello Gheddafi. Ennesimi episodi possono essere ricercati nell’abbattimento del Dc9 Itavia, nel 1980. E poi nel lancio di un missile di fabbricazione russa nel Canale di Sicilia da parte di Tripoli nell’aprile del 1986, come rappresaglia per un raid aereo Usa sulla capitale. Dopo la “crisi di Sigonella” fra l’Italia di Bettino Craxi e gli Stati Uniti di Ronald Reagan, la marina americana era andata in escalation contro la Libia con manovre nel Golfo della Sirte. A queste era seguito un attentato terroristico a Berlino in cui erano morti tre militari statunitensi.
Nessuno di questi passaggi di una tensione ultracentenaria nel Mediterraneo centrale (tuttora teatro, fra l’altro, dell’emergenza–migranti) è stato privo di premesse e conseguenze rilevanti. E mentre si fanno assillanti gli appelli a rileggere quanto avvenne in Italia negli anni che portarono all’avvento del fascismo, può non risultare inutile risalire a quando il Paese inviò per la prima volta suoi soldati in Libia.
Anzitutto: la guerra del 1911–12 fu dichiarata alla Turchia ottomana e islamica, che allora occupava Cirenaica e Tripolitania. Il passo fu deciso dal premier Giovanni Giolitti, al culmine del primo boom economico dell’Italia unita, in un regime liberale che non conosceva ancora il suffragio universale maschile. Fu appoggiato dalle spinte colonialiste di vaste forze economiche (neo–industriali al Nord, agrarie al Sud). Fu l’esito del rigurgito nazionalista di una giovane potenza regionale in crisi morale e diplomatica dopo il disastro di Adua.
Roma si mosse fra la Triplice Alleanza (di cui l’Italia faceva parte con gli Imperi centrali), la rivalità endemica con la Francia e il tacito assenso dell’Impero britannico. Nello sguardo di lunghissimo periodo di Londra (in seguito condiviso dagli Stati Uniti) l’Italia è sempre stata un paese su cui contare nell’area mediterranea e una spina nel fianco sud dell’Europa continentale. Avvenne così nella Prima guerra mondiale – con un capovolgimento in extremis delle alleanze – e anche nella guerra Nato del 2011, subita dall’Italia e contraria ai suoi interessi.
Non avvenne nella Seconda guerra mondiale: quando pure le relazioni fra la dittatura mussoliniana e il mondo anglo–americano furono intense e vitali fino al giugno 1940. l’Italia scelse allora la Germania nazista, antidemocratica e antisemita per diventarne presto satellite.
La Prima guerra di Libia fu sponsorizzata dalla monarchia sabauda e gradita alle forze armate, anche per ragioni di bilancio. Per l’esercito ne risultò una sorta di “prova generale” del conflitto mondiale che sarebbe deflagrato di lì a poco (fra l’altro, l’occupazione italiana del Dodecaneso nell’Egeo contribuì a riattizzare i nazionalismi balcanici che furono scintilla della Grande guerra).
Il confronto politico all’interno del Paese fu acceso e lasciò tracce importanti. Ebbe origine allora lo scontro profondo fra interventismo (quest’ultimo minoritario nel Paese sia nel 1910–11 sia nel 1914–15) e neutralismo, largamente diffuso fra il socialismo umanitario e il cattolicesimo sociale in crescita nel Paese. È di allora la famosa – e mistificante – sintesi mediatica del poeta Giovanni Pascoli (“La Grande Proletaria si è mossa”): interventista ben prima del dannunzianesimo.
La Santa Sede si mantenne ufficialmente neutrale e faticò a trattenere alcuni vescovi dal benedire le truppe in partenza. Negli articoli della Civiltà Cattolica di quel periodo erano comunque visibili i semi della celebre denuncia sull’“inutile strage” di Papa Benedetto XV nel 1917. Certamente la svolta in Libia accelerò il ritorno dei cattolici sulla scena politica italiana, maturata poco dopo nel “patto Gentiloni”. Una nuova legge elettorale aprì al suffragio universale maschile nel 1912, a guerra in corso.
Alle elezioni del 1913, l’Unione Liberale giolittiana – per la prima volta appoggiata ufficialmente da un vasto fronte di cattolici moderati e conservatori – riuscì a difendersi di fronte all’avanzata di socialisti e radicali. Ma il governo non resistette: Giolitti cadde all’inizio del 1914, proprio sul budget per la nuova colonia libica. Fu costretto a indicare Antonio Salandra come successore, ma quest’ultimo – dopo lo scoppio della Grande guerra in Europa – ruppe con il neutralismo triplicista di Giolitti e assecondò l’ingresso del Paese nel conflitto a fianco dell’Intesa.
Alcuni storici considerano il Patto di Londra e gli eventi del maggio 1915 alla stregua di un colpo di Stato pilotato dalla Corona contro il Parlamento: uno strappo paragonabile al varo delle leggi liberticide da parte del governo Mussolini nel 1925.
L’avventura coloniale italiana produsse frutti tangibili molti decenni dopo: quando l’Eni avviò lo sviluppo delle sue attività di ricerca ed estrazione di petrolio in tutta l’Africa del Nord. L’impegno si protrasse anche nel quarantennale regime di Gheddafi: per alcuni versi figlio del processo di decolonizzazione dell’area, ad opera di leader militari laici, capaci di imporre stabilità ai tribalismi.
La Prima guerra di Libia fu in ogni caso – come quelle che seguirono – un passaggio di realpolitik: dettata/imposta all’Italia da un preciso set di condizioni storiche e da uno specifico funzionamento della governance del sistema–Paese.
Oggi nulla vieta all’Italia di riaprire il fronte libico 109 anni dopo. Incognite e riserve non mancano, ma proprio per questo sembra utile, anzi necessario che il premier Giuseppe Conte – non eletto e sempre meno riferibile ad alcuna delle forze politiche della sua stessa maggioranza – apra un processo decisionale serio e trasparente nell’architettura istituzionale repubblicana. Nessun passo può essere deciso se non nella collegialità del Consiglio dei ministri, nel confronto aperto con il Parlamento, sotto la vigilanza diretta del Presidente della Repubblica che fra le sue responsabilità di garanzia ultima ha anche quella di Capo delle Forze armate.
Quali sono gli interessi e gli impegni, i costi, i rischi e le opportunità di un possibile ruolo italiano in una forza d’intervento in Libia?
Il problema per l’Italia non è se il premier Conte ha o no un posto in prima fila nella foto di gruppo di una conferenza internazionale. Si pone invece più di una questione se lo stesso premier – a capo di due coalizione diverse – si è reso protagonista negli ultimi mesi di passaggi diplomatici e geopolitici molto controversi: la definizione dei nuovi organigrammi Ue nel dopo–elezioni europee; e un ribaltone di governo fortemente influenzato da Ue e Usa, questi ultimi protagonisti di una discussa richiesta di cooperazione da parte dell’intelligence italiana riguardo vicende oggetto dell’impeachment in corso al Congresso Usa contro il presidente Donald Trump.
Il contesto internazionale non appare, intanto, meno complesso e contraddittorio di quello interno. La cancelliera tedesca Angela Merkel – che l’altra sera ha esibito un dichiarato “accordo sulla Libia” non firmato dai contendenti – è una leader al capolinea: considerata chiaramente non affidabile da tutti quelli che hanno speso l’ultima domenica a Berlino.
La Ue, ancora una volta, si è mostrata completamente inesistente, anche con una presidente tedesca.
La Francia — che ha scatenato la guerra nel 2011, anche se oggi l’ex presidente Nicolas Sarkozy è sotto inchiesta giudiziaria – difende in Libia interessi (petroliferi) propri, in diretto conflitto con quelli italiani. Ed Emmanuel Macron ha messo virtualmente Parigi alla guida strategica di un processo di riarmo dell’Europa.
Gli Usa di Trump – all’inizio di un anno di voto presidenziale – hanno appena testimoniato in Iran il loro approccio geopolitico corrente: uso unilaterale della forza a difesa degli interessi Usa e tendenziale disimpegno dagli impegni militari multilaterali, certamente da quelli Nato in Europa.
Infine: Russia e Turchia, le due democrature semi–europee newcomer in Libia, sono allenate da tempo a operare militarmente in endemici “Vietnam” nel vasto spazio che dall’Ucraina arriva fino a Iraq e Siria, ai confini di Israele e con vista su Iran e Afghanistan.
Il problema, per l’Italia, non è certamente se il suo premier o no ha un posto riservato nella foto di gruppo di una conferenza internazionale. È se è accettabile che quel premier – non eletto dagli italiani e oggi meno che mai espressione di alcuna delle forze politiche della maggioranza parlamentare di governo – rappresenti il Paese e i suoi interessi in quelle sedi e alla guida dell’esecutivo.