A Mestre, davanti al Tribunale dei minori, una madre si dà fuoco perché la figlia era stata dichiarata adottabile e si trova in comunità. La donna è una cinquantenne di origine marocchina che, in un italiano stentato, spiega in un cartello che la colpa dell’affido sarebbe a carico dell’ex-marito che, pur di togliere la bimba alle cure della madre, avrebbe fatto “di tutto” per affidarla a estranei.
Tante tesserine del puzzle non sono chiare. Una cosa strana, per esempio, è che, a quanto pare, alla donna era impedito da oltre un anno di vedere la figlia. Anche questo elemento – di per sé una mostruosità – andrebbe bilanciato con le motivazioni dei giudici, ma esse non sono note. Si sa, invece, che ieri la donna si è recata al Tribunale, ha disposto accanto a sé la sentenza con il numero di protocollo, la foto della bimba, il cartello cui ho già alluso, poi ha preso una tanica con del liquido infiammabile e si è cosparsa il corpo, dandosi fuoco.
L’atto estremo è stato visto da alcuni dipendenti che sono immediatamente intervenuti usando gli estintori posti all’ingresso del Tribunale e sono riusciti a salvarla: anzi, uno dei soccorritori ha perfino riportato delle leggere ustioni. Poi è intervenuta la Polizia di Stato che ha sigillato l’area e sono partite le indagini.
Dopo Bibbiano, siamo tutti ipersensibili a questi temi. La nostra Costituzione demanda la cura dei figli in primo luogo ai genitori e lo Stato si pone in posizione sussidiaria rispetto alla famiglia. Eppure in certe situazioni occorre un intervento. Ma le domande rimangono. Quando e come lo Stato può parlare della salute psicologica di una donna? Come può decidere se una persona può essere madre? Con quali parametri giudica che si abbiano le giuste capacità genitoriali? Non è facile rispondere, perché il confine tra invadenza dello Stato e giusta assistenza è labile ed è facilissimo varcare il limite tra aiuto e abuso e, quasi sempre, quando avviene di superarlo, le vittime sono i più piccoli e i più deboli
Mi convinco sempre di più che la cosa ideale è che non si arrivi mai ai tribunali, alle carte bollate. Che ci sia un contorno familiare, amicale, sociale che supporti e aiuti nelle difficoltà perché la giustizia dei giudici, con tutta la buona volontà, è sempre difficile che sia vera giustizia. Le vere guerre vinte non sono quelle vinte nei processi, ma sono quelle che ai processi non arrivano perché si è trovato il modo di parlarsi, di venirsi incontro, di trovare un accordo. So bene che le aule di giustizia, intasate ci sono proprio perché spesso gli accordi non sono possibili. Ma è giusto non dimenticare quali siano il vero bene e il vero giusto.