NEW YORK — Per capirci un po’. Siamo alla seconda giornata della fase cruciale del procedimento contro il presidente Trump. Siamo al “processo” vero e proprio. Ma questo non solo non è un processo ordinario, questo è un iter giudiziario che il paese nella sua relativamente giovane storia ha sperimentato solo due volte, con Andrew Johnson (1868) e Bill Clinton (1998). Quindi di punti fermi ce ne sono pochi, e infatti la prima giornata, lunga e laboriosa, è stata interamente dedicata a definire le “regole del gioco”.
E ovviamente le regole del gioco in una sfida come questa contano assai: quanto tempo dare alle parti per presentare le proprie tesi, quali prove ammettere e quali no, e soprattutto autorizzare la citazione di testimoni o meno. C’è una complessità di situazioni e personaggi che hanno da dire la loro in questa storia, dagli House Managers (cioè gli accusatori democratici), ai difensori della Casa Bianca (guidati da Kenneth Starr, colui che mise insieme il “report” che determinò l’impeachment di Clinton), al Chief Justice John Roberts (che presiede il processo, lui che è il “capo” della Corte Suprema). Il tutto davanti a 100 senatori, 53 repubblicani, 45 democratici e 2 indipendenti.
Sarà solo la ragion di partito a dettare il voto? Se così fosse, i numeri ci darebbero già il verdetto prima ancora di cominciare tutto questo ambaradan. Ma chissà cosa potrà saltare fuori da questo processo.
Anzitutto, la prima sorpresa è avvenuta sul terreno minato dell’ammissibilità di testimoni. Una delle grandi regole del gioco su cui decidere. Di testimoni nelle fasi precedenti ne abbiamo ascoltati tanti. Recentemente però son saltate fuori registrazioni, dichiarazioni, documentazioni che sembrerebbero rilevanti ai fini accusatori.
Dati i numeri, ci si sarebbe potuti aspettare un rigetto totale della questione, un no secco dei 53 senatori repubblicani all’ammissibilità di testimoni. Anche perché il portavoce del Senato, Mitch McConnell (preposto a guidare l’iter di creazione delle “regole del gioco”), è dichiaratamente un coriaceo sostenitore della tesi repubblicana secondo cui Trump non ha “abusato”, ha semplicemente “usato” il potere. Potere di cui è stato investito attraverso il processo democratico di elezione (popolare, perché qui il Presidente lo vota la gente, don’t forget that).
Inaspettatamente tutti i senatori, cioè letteralmente 100 su 100, hanno concordato di non deliberare subito nel merito della cosa, decidendo di aspettare le presentazioni delle tesi, difensiva e accusatoria, prima di decidere in merito all’ammissibilità di queste nuove testimonianze. In altre parole, ascoltiamo dalle due parti lo stato dell’arte e poi ci ragioniamo su. Di questi tempi, un raro successo di un criterio diverso da quello della mera appartenenza partitica.
Tutti contenti? Macché! Al Presidente e agli uomini della White House è venuto uno sbotto di bile. Perché? Semplice: che la grande battaglia campale dell’impeachment cominci con un civile e rispettoso tentativo di trovare regole comuni non è affatto un bel segno per chi fa affidamento sulla partigianeria che, numeri alla mano, garantirebbe una piena assoluzione e spianerebbe la strada a una possibile rielezione.
Ma sono certo che Trump non se ne preoccupi più di un tanto. Si può combattere per essere il Presidente di tutti o del 51% della nazione. Lui ha fatto la sua scelta da quando si è messo in politica.
God Bless America!