Le dimissioni di Luigi Di Maio da capo politico del Movimento 5 Stelle mi hanno fatto venire alla mente l’insegnamento di uno dei più grandi scienziati politici italiani, forse il più grande: Paolo Farneti, scomparso troppo presto in quell’agorà di fermenti culturali che fu la Torino irripetibile degli anni Settanta e Ottanta del Novecento (Paolo morì improvvisamente e drammaticamente proprio nel giugno del 1980 mentre stava scrivendo una biografia di Max Weber che certo sarebbe stata memorabile). Nel dibattito allora in corso tra bipolarismo imperfetto (Giorgio Galli) e pluralismo polarizzato (Giovanni Sartori), Farneti ipotizzava un’interpretazione del sistema politico italiano che non era né la paralisi, né l’estremizzazione, ma la tendenza dei partiti verso il centro: il “pluralismo centripeto”, in cui il centro sociale e politico è alimentato, nel suo essere punto di riferimento costante di ogni maggioranza governativa, dall’eterogeneità, dalle contraddizioni e dalle tensioni dei due poli del sistema dei partiti, della destra e della sinistra.
Nel nuovo quadro storico, il sistema politico italiano di oggi, con la forte de-ideologizzazione filosofica che lo caratterizza e il prosciugamento della società politica che lo assale (ossia la perdita dei riferimenti strutturali delle basi sociali dei partiti di massa su cui Lodovico Festa per primo e di continuo ha richiamato la nostra attenzione), vede la trasformazione dei partiti sì in “partiti personali” (secondo l’insegnamento di Mauro Calise), ma fondamentalmente in aggregazioni transitorie di frazioni di classi medie scolarizzate e secolarizzate e di classi “basse” impoverite in fibrillazione e stremate dalla paura del futuro.
I loro capi caciquisti si affermano in guisa di nuovi interpreti non più delle ideologie, ma delle nuove religioni della secolarizzazione (apocalisse climatica, no–vaccini, chats, sesso mediatico, tatuaggi, fitness estremo, pornografia di massa televisiva, influencers, ecc.) che invadono i landscapes dei mass-media. È questo il frutto dell’essersi privati – deliberatamente – i partiti o ciò che ne rimane (e che ancora non sappiamo definire) delle loro basi sociali di riferimento: essi debbono privarsene perché oggi sono sempre più preda di caciqui imprenditoriali o di compagnie di ventura straniere che agiscono sul suolo italiano secondo una tradizione che risale a Carlo VIII, con la sua discesa in Italia del 1494. Non più come un tempo gli Usa, ma Cina, Iran, Unione Europea intesa solo come politica economica ordoliberista con pilota automatico invariabile, quali che siano i risultati elettorali: ecco i risultai prodotti da una globalizzazione finanziaria sregolata che risale agli ultimi due decenni del Novecento e che determina, oggi più che mai, con la stagnazione secolare, l’Occidente, un tempo caratterizzato da economie miste e da democrazie liberali o socialdemocratiche che fossero.
Di Maio bene rappresenta nel suo discorso di addio tutte queste tendenze che stanno uccidendo la società politica, ossia (anche qui un’idea universale della riflessione teorica di Paolo Farneti) quello spazio esistente tra la società civile fergusoniana ed hegeliana e la macchina dei partiti. Ossia il liquido amniotico che consente la rappresentanza parlamentare e che è l’essenza della democrazia rappresentativa non plebiscitaria, liquido che si è disseccato per l’incrocio tra secolarizzazione, emersione di un nuovo sacro neo–pagano e tendenze alla privatizzazione degli interessi politici delle élites dominanti.
Oggi esistono, invece, “contratti” di governo e non “accordi” (economicismo neo–liberista dispiegato) e capi disponibili a ogni avventura di rappresentanza uccidendone così la legittimità democratica (potere verticale originato da cambiamenti non ideologici – e inespressi politicamente – di casacca tra schieramenti politico-governativi diversi, secondo il modello che rimarrà canonico dell’avvocato e professore Giuseppe Conte, il quale continua a essere primo ministro in due governi diversi senza ricorso alle urne, costituendo un precedente nella stessa tradizione costituzionale… di una Costituzione repubblicana non incompiuta ma inespressa e sempre meno compulsiva).
Lo stesso Di Maio presenta le sue dimissioni mentre si avvicina il risultato di una elezione certo regionale e non nazionale, ma che vede impegnato il Movimento di cui era capo politico in guisa per certi versi assai significativa per la storia politica nazionale, trattandosi dell’Emilia-Romagna a lungo tradizionalmente governata da governi di sinistra, tradizione che rischia d’infrangersi elettoralmente.
In questo senso il discorso di Di Maio rimarrà come documento di una transizione già compiuta tra forme diverse sia di società politica, sia di sistemi di partito. Lo Spirito Assoluto non sempre si realizza in guisa simile a quella che il grande Hegel aveva visto nel corso della sua passeggiata pomeridiana dopo la battaglia di Jena, quando l’Empereur dei francesi e di quello che appariva poter essere un nuovo mondo gli apparve su un maestoso cavallo in corsa.
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