“Noi che amiamo abbiamo solo questo da offrire: lasciarci liberi l’un l’altro, perché trattenerci è facile, e non è arte da imparare” (R.M. Rilke, Requiem)
Con questa citazione del poeta austriaco, da lei amatissimo, Etty Hillesum commenta, il 13 marzo 1942, in uno dei tanti passaggi del suo diario, la strana passione che prova per la vita e per gli esseri umani in tutte le loro sfaccettature. Lo spettacolo di Marina Corradi (in scena il 28 e 29 gennaio al Teatro Oscar di Milano) mostra questa passione, traendo un monologo denso, drammatico ma anche pieno di ironia, proprio a partire dal diario e dalle lettere della ragazza olandese. La forza delle sue parole, affidata a Angela Dematté, riesce a rievocare quei tre anni dal ’41 al ’43, un periodo di tempo brevissimo in cui la vita di Etty si è allargata, fino a poter trascrivere con certezza quei pochi versi di Rilke.
Tutto inizia il 3 febbraio 1941, quando Etty incontra la persona che le cambierà prospettiva su di sé e sugli altri: Julius Spier. Lei è una ragazza inquieta, instabile e, come afferma lei stessa, “troppo sensuale […] possessiva; provavo un desiderio troppo fisico per le cose che mi piacevano, le volevo avere” (16 marzo 1941). Ma lui, Spier (o come lo chiama lei nel diario, S.), è uno strano uomo che fa lo psicanalista; lui sa leggerle in profondità, senza forzarla a cambiare ma invitandola a lavorare giornalmente con se stessa per trovare una verità interiore, cioè per scoprire il proprio vero io, spogliandosi di ogni giudizio che le è stato messo addosso dalla società, dai genitori o anche da se stessa. Tra i due nasce una forte attrazione intellettuale e fisica. Ma questo per Etty è solo una piccola goccia del “pozzo profondo” in cui lei sta per immergersi: facendo quel lavoro che le proponeva Spier, Etty arriva a percepire un’immensità dentro di sé, “la parte migliore e più profonda del mio essere, quella che io chiamo Dio” (10 agosto 1941), che non sa come sia finita lì dentro ma che si dimostra essere più umana, desiderabile e invidiabile.
E allo stesso tempo, Etty scopre che quell’immensità non è, anzi non può essere solo per lei ma deve raggiungere tutti. In un mondo dove la società si è imborghesita e soffre per l’invasione tedesca, Etty riesce ad avere un sentimento di pietà verso un giovane nazista che sbraita contro lei e i suoi amici perché ebrei e affermare con certezza che “questi orrori non sono come un pericolo misterioso e lontano al di fuori di noi, ma che si trovano vicinissimi e nascono dentro di noi” (27 febbraio 1942). Deve essere offerta a tutti la possibilità di guardarsi con sincerità anche nelle pieghe della vita più oscure e spaventose, perché solo in questo modo la vita può diventare più vivibile, pur con ricadute e momenti di fatica e stanchezza.
L’uomo desidera essere libero e ciò è possibile attraverso un atteggiamento carezzevole e ironico verso gli altri. L’amore verso la libertà degli altri (di tutti gli altri, non solo di Spier perché per Etty diventa limitato volere il bene di e per una sola persona) ritorna sempre a galla, la afferra e la porta ad affermare che lei non vuole avere l’altro tutto per sé fino a soffocarlo ma vuole assorbirlo appieno, lasciarlo crescere lentamente dentro di sé finché quello che si assorbe non diventa una parte di sé stessi (29 maggio 1942).
Anche la situazione che più di tutte in quegli anni mira a far tacere la coscienza umana, il campo di concentramento, non fa rinnegare a Etty la nuova speranza che ha trovato nella vita. Sta con i più disperati proprio per permettere una vita reale e una consapevolezza di sé sincera: “Vorrei trovarmi in tutti i campi che sono sparsi per l’intera Europa […] non voglio stare al sicuro, voglio esserci, […] voglio capire quel che accade” (2 ottobre 1942). Solo non retrocedendo dalle situazioni più dure, ci si mantiene capaci di perdonare e amare anche i propri aguzzini: il “pozzo profondo”, le sorgenti dell’anima, Dio sono sempre presenti dentro le persone, tutte le persone, ma bisogna sempre riconquistarli! E se gli altri non ne sono capaci, allora Etty stessa sarà “il cuore pensante di questa baracca, […] il cuore pensante di un intero campo di concentramento” (3 ottobre 1942). Un cuore che, nutrito di quelle immense profondità, sempre pensa a sé stesso e agli altri in mezzo a tutte le tempeste della vita.
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