La forza dell’Emilia Romagna sta tutta nella posizione geografica in cui l’ha collocata l’Onnipotente: “tra la via Emilia e il West”, come canta Francesco Guccini. Bologna è l’ombelico dell’Italia: tutti i traffici importanti su treno e su gomma passano di lì. Ma la città delle Due Torri, che ospita il più antico Ateneo del mondo (e che è tuttora in vetta alle classifiche mondiali), ha potuto giovarsi della lungimiranza di amministratori locali che capirono in anticipo l’importanza di un raccordo anulare che dirottasse il traffico al di fuori delle mura cittadine. Questo raccordo congiunge e smista le colonne di auto e di camion provenienti dal Nord-Est e dal Nord-Ovest e li indirizza in ogni dove, come avviene per il traffico in viaggio dal Centro-Sud. L’allargamento dei confini europei ha accresciuto il ruolo centrale di Bologna, tanto da farla diventare ancora di più una città strategica per l’economia, il lavoro e la vita dei popoli dell’Unione.
Ma l’Emilia-Romagna è una regione policentrica. Modena è una enclave della Germania unita alla madrepatria attraverso l’Autostrada del Brennero. Vicino a Modena c’è Maranello. Edmondo Berselli scrisse che Dio aveva creato l’Emilia-Romagna solo per fare posto alla Ferrari. Parma è la città del cibo; Ferrara è riuscita a superare la crisi del petrolchimico investendo su se stessa e sull’arredo urbano. Ravenna conserva il profilo della capitale bizantina, con gli affreschi di Classe che continuano da secoli a penetrare nell’anima dei visitatori. Poi ad est la Romagna solatia con le sue spiagge popolari: dai lidi ferraresi a Cattolica, un centinaio di chilometri che costituiscono una delle capitali mondiali del turismo, con una capacità di accoglienza che teme ben pochi confronti altrove. Ciò che rappresenta l’industria del turismo in Romagna è la prova che vi sono degli aspetti antropologici alla base dello sviluppo. Rimini (ora impegnata nel festeggiare il centenario della nascita di Federico Fellini) nei primi anni del secolo scorso era una cittadina di pescatori e di mezzadri. Si accorsero che ai “signori” della città piacevano quelle spiagge assolate e nella loro mente scattò l’idea di ospitarli: dapprima a casa loro, poi in un’abitazione (costruita apposta per essere affittata d’estate) che nel tempo sarebbe diventata una pensione, poi un albergo, mandato avanti dal lavoro di una famiglia allargata che, quando arrivava la “stagione” si trasformava in cuochi, camerieri, negozianti e quant’altro (anche se gli “stagionali” sono sempre più degli stranieri).
Il modello emiliano sembra aver scoperto il moto perpetuo: sono almeno trent’anni che se ne celebra l’esaurimento della spinta propulsiva, salvo venir smentiti dalla cruda realtà dei dati che continuano a collocare la Regione ai vertici di tutte le possibili classifiche (anche dopo la grande crisi). In questo successo la politica ha svolto il suo ruolo, grazie alla sostanziale continuità di programmi e di azioni che ha contraddistinto le città, anche quando è venuto a mancare il monopolio del Pci e dei suoi eredi.
La vera differenza sta nel tessuto sociale: la società emiliana ha bisogno che le si lascino le briglie sul collo perché sa trovare la strada da sola. L’Emilia-Romagna è divenuta non solo una regione europea, ma “un campione” del Vecchio Continente. E l’Europa è stata e rimane lo scenario delle nuove opportunità.
Perché il “miracolo” prosegua, tuttavia, devono compiersi alcune scelte di fondo: occorre che i “corridoi” (ovvero le arterie di comunicazione sulle quali poggerà gran parte dello sviluppo dell’Unione) si snodino lungo un tragitto subalpino e attraversino la pianura padana. Perché ciò si realizzi, bisogna che il Paese riesca in breve tempo a recuperare il gap infrastrutturale che lo penalizza. L’Emilia-Romagna è la patria dei distretti industriali. Vi sono aree (si pensi a quella delle ceramiche o del biomedicale o dell’agroalimentare o della meccanica) che costituiscono dei modelli inimitabili e sorprendenti per la vitalità che hanno dimostrato nel tempo. Si tratta, però, di realtà spesso isolate e prigioniere di una rete di infrastrutture assolutamente inadeguata. Realtà che hanno bisogno di essere liberate dall’attuale “incaprettamento” e di collegarsi alle grandi reti del traffico internazionale.
Per quanto riguarda il capitale umano, la regione continua ad essere attrattiva pur in un contesto demografico non favorevole (la popolazione è strutturalmente più anziana della media nazionale con i giovani adulti che rappresentano solo un quarto dei cittadini emiliano-romagnoli). I dati dell’occupazione raggiungono standard europei, anche per quanto riguarda il lavoro delle donne. La disoccupazione giovanile (17,8%) presenta un tasso inferiore rispetto a Veneto e a Lombardia. La stessa performance vale per i Neet. Un sistema di istruzione regionale di qualità integra sia il pubblico che il privato-paritario, ma indubbiamente va rafforzato il criterio della sussidiarietà, soprattutto a livello degli asili nido e della scuola materna. L’esperienza dimostra, infatti, che l’ampia copertura di questo servizio alle famiglie non sarebbe garantito dalle sole strutture pubbliche. Le stesse considerazioni valgono per la formazione professionale: i centri dei Salesiani e delle altre istituzioni d’ispirazione cristiana svolgono un compito fondamentale nel garantire un flusso di capitale umano verso il mondo dell’impresa.
Per quanto riguarda l’occupazione, soprattutto giovanile, occorre bandire i luoghi comuni che impediscono di guardare l’altra faccia della medaglia: vi è una diffusa domanda di lavoro che non trova risposta nell’offerta. Il cosiddetto mismatch è uno dei maggiori handicap della Regione. Un handicap che nel dibattito pubblico viene dissimulato attraverso una rappresentazione stereotipata dei giovani, presentati come disoccupati, precari, sfruttati, privati anche dei diritti più elementari e condannati ad un’esistenza scritta sull’acqua, a rinunciare all’esperienza creativa della genitorialità e al tepore di un’abitazione accogliente. Sia chiaro: sono consapevole che la mia avversione per i luoghi comuni a volte mi porta ad estremizzare i ragionamenti. Le piaghe che affliggono la condizione giovanile esistono e non sono ancora risanate, perché le politiche sociali (e il target mediatico) non riescono a togliersi dalla testa l’equazione povero = pensionato, di cui si è dimostrata mille volte l’infondatezza.
Chi promette oggi di voler ridurre le tasse, poteva pensarci prima anziché destinare ingenti risorse (con quota 100 e il blocco dei requisiti per il trattamento di anzianità) per mandare in pensione persone ancora in grado di lavorare, senza che ne sia derivato un ricambio occupazionale adeguato, che invece sarebbe stato favorito da un’allocazione sul costo del lavoro.
Tornando in conclusione ai giovani, credo che debba far riflettere il movimento delle cosiddette sardine. Questi giovani sono scesi in piazza a decine di migliaia da Nord a Sud. Hanno sfidato la pestilenza sovranista. Ma nessuno, dico nessuno si è premurato di esibire l’effige di una sardina di cartone su cui fosse scritto: “no al precariato’’, “ridateci l’articolo 18”, “no alla Fornero”, “garanzia di una pensione”. Nulla di quanto taluni dirigenti sindacali stanno chiedendo a favore dei giovani (ma come sempre a vantaggio dei più anziani).
L’Emilia-Romagna, poi, è una terra accogliente che ha saputo integrare gli stranieri e le loro famiglie, perché il suo sistema economico e sociale è consapevole che gli squilibri demografici finiranno ben presto per divenire un problema per lo stesso mercato del lavoro.
In sostanza, per la lista che rappresento le parole d’ordine sono semplici e chiare: società aperta, libertà del commercio, Europa, euro, accoglienza e integrazione. Nel medesimo tempo sono espliciti i NO: al sovranismo, al populismo, allo sciovinismo e al razzismo, quelle “passioni tristi’’ che hanno insanguinato l’Europa e il mondo nel secolo scorso.