La memoria è la nostra biblioteca privata, una sorta di archivio storico della nostra esistenza. Memoria e letteratura, quando viaggiano a braccetto, hanno la forza di portare in alta definizione ciò che la realtà tende a coprire. “Juden hier” (“Qui abita un ebreo”): con queste parole, boato di vecchi rastrellamenti, hanno vergato la porta di un’abitazione a Mondovì, nel cuneese.
A Dachau, cattedrale inquietante di una brutalità in fase di riaggiornamento, un’altra frase è stampata su uno dei tanti monumenti, come antidoto alla dimenticanza: “Quelli che non ricordano il passato sono condannati a ripeterlo”. È il significato della Giornata della Memoria: ogni anno ritorna come promemoria, una lezione annuale di ciò che è stato e che, rimanendo in agguato, è sempre passibile di nuovi assalti.
Dimenticare, insegnando l’arte della dimenticanza, è l’arnese del Male: se la memoria è una luce che si accende nel sottoscala della storia, è risaputo, per una legge di natura, che nessun pipistrello ami la luce accesa.
La dimenticanza è, dunque, una sciagura: la memoria è una specie evoluta di riscatto. La frottola è quella di tenere legata la memoria al tempo passato, alle cose già accadute, a ciò che è stato sepolto per sempre: “A che cosa serve, dunque, la memoria?” ci si chiede in una stagione concentrata nel suo presente, fino a farlo diventare il metro e la misura dell’esistenza.
La memoria non è l’amarcord: l’amarcord è la malcelata nostalgia di un qualcosa che non c’è più, la memoria è l’ostinata emozione di coltivare un giardino pieno d’erbacce. L’amarcord è la passione di un ricordo, la memoria è l’opposto: è ciò che ci ricorda, è un presente che non finisce mai di passare.
Sant’Agostino, parlando del tempo, accese il sospetto che il passato, il presente e il futuro siano un grande inganno. “Non esiste passato, presente e futuro – ragiona a voce alta –. Esiste soltanto il presente. Il presente del passato è la memoria; il presente del presente è l’attenzione; il presente del futuro è l’attesa”. Perdere il passato, allora, è consumare il futuro prima che accada. “È distratto” diciamo di qualcuno che, quando gli parli, ha la testa da un’altra parte. Distrarsi è il contrario di concentrarsi: una chiassosa mancanza di attenzione.
Dedicare un’intera giornata alla memoria è tenere aperta una ferita: perché la memoria del male non riesce a cambiare l’umanità? Primo Levi, un superstite di quella mattanza della Shoah, scrisse che “la memoria è uno strumento molto strano: la memoria può restituire, come il mare, dei brandelli, dei rottami magari a distanza di anni”. Lo scrisse lui che, da sopravvissuto, non resse il fatto d’essere rimasto vivo quando tantissimi erano morti.
Abbiamo tutti una memoria immensa, a nostra insaputa: la vera arte della memoria è l’attenzione, se non la si esercita rischia di diminuire, fino a perdersi per strada, inghiottita dal dubbio se una pagina sia accaduta per davvero o sia stata inventata di sana pianta. “E quando uscirai dal carcere?” chiedono spesso a Jacopo, dopo aver ascoltato in viva voce la sua storia di ex omicida: “Non so bene chi sarò domani – risponde a testa alta – ma so bene chi sono oggi: un ragazzo che non si dimentica chi è stato ieri. Che cosa ha fatto ieri”.
Accenni di memoria, attenzione, attesa. C’è la memoria del passato, anche la memoria del futuro: si chiama promessa. E vive sulla premessa che la memoria del male compiuto argini la smemoratezza di chi sceglie la distrazione di massa come forma di distruzione di massa.
Una sorta di riaggiornamento di un virus già in circolo nella storia.