L’epidemia che dalla Cina si va diffondendo in tutto il mondo è materia anzitutto per i medici. Tuttavia, chi segue professionalmente la Cina dal punto di vista politico e religioso – dirigo un quotidiano in cinque lingue sui diritti umani e la libertà religiosa in Cina, Bitter Winter – non può esimersi da qualche commento. Propongo quattro temi di riflessione.
Primo, la diffusione di un grande male dalla Cina al resto del mondo ha un che di irresistibilmente simbolico. Il Dragone ha artigli molto lunghi. È degli ultimi giorni la notizia che Trump ha nominato un ambasciatore ad hoc per contrastare la crescente egemonia cinese alle Nazioni Unite dove, dopo la presidenza della Fao, la Cina vorrebbe ora anche quella dell’Ompi, l’Organizzazione Mondiale della Proprietà Intellettuale che si occupa di proteggere marchi e brevetti contro la contraffazione. Metterci come presidente un cinese, cioè un esponente del Paese leader mondiale in materia di contraffazione, sarebbe come aver messo a suo tempo bin Laden a capo di un’organizzazione antiterrorismo.
La Cina esporta di tutto, merci a basso costo, influenza politica, e fake news. Ora esporta, e non è la prima volta, anche malattie. Tra l’altro, pochi sanno che Wuhan, il centro dell’epidemia, ha anche un’università leader nella produzione e diffusione di propaganda e fake news, talora riprese anche in Italia da giornalisti miopi e altri che invece ci vedono benissimo ma hanno bisogno del soldino da Pechino per arrotondare in tempi di crisi, contro gruppi religiosi etichettati come “sette” e messi al bando dal governo cinese, tra cui la Chiesa di Dio Onnipotente – il gruppo attualmente più perseguitato – e il Falun Gong. “Veleni da Wuhan” potrebbe essere un titolo con più di un significato.
Secondo, la Cina chiede l’aiuto del mondo e dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, ma pone delle condizioni. Le informazioni che è disposta a condividere, per un vecchio vizio tipico dei regimi totalitari, non sono mai totalmente trasparenti. E la Cina è disposta a organizzare dei vertici con i Paesi vicini e le organizzazioni internazionali solo a condizione che non vi partecipi Taiwan – che è vicino alla terraferma cinese e quindi più di altri minacciato dall’epidemia e ha centri leader nella lotta alle malattie infettive. Ma, soprattutto dopo che questo mese ha rieletto una presidente sgradita a Pechino, per il Partito Comunista Cinese Taiwan deve restare fuori della porta. L’unico contributo che è autorizzata a dare sono i morti.
Terzo, l’epidemia potrebbe essere un’occasione per uno sguardo onesto al sistema ospedaliero cinese. Dove lavorano eccellenze e Premi Nobel, che però sono a disposizione solo dei ricchi. Prima che la censura del Partito Comunista facesse pulizia su Internet, i cinesi si sono commossi per la storia di Wu Huayan, una studentessa ventiquattrenne orfana di entrambi i genitori morta letteralmente di fame dopo avere esaurito i suoi risparmi per pagarsi gli studi e le cure per un fratello malato. La denutrizione l’aveva distrutta ma un’operazione avrebbe forse potuto salvarla: se solo si fosse potuta permettere di pagarla. In questo senso – ma non in altri, ovviamente –, è vero che la Cina ha superato la fase socialista. Gli ospedali funzionano per chi paga. Come negli Stati Uniti, potrebbe dire qualcuno, ma con una grande differenza. In America ci sono tantissimi ospedali gestiti da religioni, molti dalla Chiesa cattolica, che curano gratis i meno abbienti. In Cina no.
Quarto, una delle peggiori notizie degli ultimi giorni è l’arrivo dell’epidemia nello Xinjiang, dove tre milioni di uiguri e di esponenti di altre minoranze etniche turcofone sono rinchiuse nei terribili campi di “trasformazione attraverso l’educazione”, talora spacciati da una propaganda grottesca per “scuole” mentre sono a tutti gli effetti prigioni, e tra le peggiori del mondo. Non è necessario essere medici per sapere che nelle prigioni e campi di concentramento le epidemie si diffondono più rapidamente che altrove, e il problema va oltre lo Xinjiang coinvolgendo lo sterminato sistema carcerario cinese. C’è anche il rischio che l’epidemia diventi una scusa per altre morti “naturali” di dissidenti ed esponenti di minoranze religiose in carcere. Proprio in questi giorni la Chiesa di Dio Onnipotente ha rilasciato il suo rapporto annuale sulla persecuzione in Cina, da cui risulta tra l’altro che 19 suoi fedeli nel 2019 sono morti in carcere o per le conseguenze della carcerazione. Molte di queste morti sono attribuite dalle autorità a cause “naturali”. Fra queste ora potrà rientrare anche l’epidemia.