Il volto giovanile, massiccio, da uomo dei campi, sbarbato, in primo piano. L’abito giacca e cravatta, come ancora usavano i cantautori in quel periodo storico, basti pensare alle copertine di Fabrizio De André. Il 68 era già passato, ma il modo di porsi, come voleva la discografia, era ancora quello della società “borghese”, serioso. Un bianco e nero profondo che scava i particolari del viso, che guarda “oltre”, buca la copertina e dice quanto ci sia dietro a quegli occhi. Così si presenta Claudio Chieffo sul suo primo disco, registrato tra settembre e ottobre 1971 presso gli studi Barbati di Modena e pubblicato da Fausto Barbati Editore.
Gli arrangiamenti sono a cura di Paolo Corbò, che suona anche la chitarra nel disco, e di Claudio Chieffo, anche lui alla chitarra. Due chitarre e basta, anche questo come si usava a quei tempi, per ragioni di budget ma anche per distinguersi dai cantanti cosiddetti di musica leggera, quelli di Sanremo, che si facevano accompagnare da grandi orchestre e tanta strumentazione, o dai gruppi pop, che per i cantautori erano una sorta di bestemmia. Qua siamo in un mondo nuovo, agli albori, dove ciò che conta è la canzone in quanto tale: in modo diretto, senza orpelli, senza costruzioni barocche. E la voce. Claudio Chieffo è già da circa dieci anni che scrive canzoni, e qui ne raccoglie una manciata di quelle giudicate più significative. La sua sebbene ancora giovanile è una voce che “buca”, che taglia, che lascia inquieti. Che pone domande.
Claudio mostra subito di che pasta sia fatto: sebbene sin da subito incluso nel ghetto della “musica cristiana”, il suo modo di cantare la fede va oltre ogni stilema tradizionalista e schematico. Come nell’immagine di copertina, va oltre. Lui, prima di tutto, canta dell’uomo e del suo inestinguibile desiderio di significato che deve fare i conti con la nostra piccolezza di uomini. La canzone che apre il disco lo dice alla grande: non c’è Gesù, non c’è Dio, nel testo della Ballata del tempo perduto. C’è una malinconia e una nostalgia quasi insostenibili, c’è il ritratto dell’uomo a ogni latitudine, perso in una società che ha stravolto, negato, annichilito il suo desiderio.
E poi c’è Auschwitz, La nuova Auschwitz. Come nel brano quasi omonimo di Francesco Guccini, Claudio Chieffo si immedesima in una persona che c’era (scrisse il brano nel luglio 1967, quasi contemporaneamente a quello di Guccini, dopo il racconto di una amica che aveva visitato il campo di concentramento). Il primo si identifica in un bambino passato “per il camino”; il secondo in uno dei componenti di quell’assurda, demenziale, atroce orchestrina obbligata a suonare “forte per coprire l’urlo della morte”.
Ma se Guccini alza una domanda forte (“quando sarà che l’uomo potrà vivere senza ammazzare”) lasciandosi prendere dal dubbio, dalla disperazione che una risposta non potrà mai esserci, Chieffo sa che Auschwitz in forme diverse ci sarà sempre, perché “non è morto il male del mondo e noi tutti lo possiamo fare”: i gulag sovietici, dove morirono decine di milioni di innocenti; i campi di rieducazione cinesi, nordcoreani, cambogiani, dove i morti furono altrettanti. E oggi, in Siria, in Iraq, in Nigeria. La differenza è però una, nelle due canzoni: in quella di Guccini “i cattivi sono gli altri”; in quella di Chieffo “il cattivo è ciascuno di noi”. Dirà l’autore della canzone anni dopo: “Non si può risolvere il problema del male esorcizzandolo, dando sempre la colpa agli altri, ma cercando quanto ne possiamo fare, perciò l’indifferenza è il primo male”.
“Neanche quelle atrocità sono valse a cambiare l’uomo” dice Luigi Giussani commentando il brano di Chieffo. “La costernazione permanente per la tragedia dei campi di concentramento, ma la saggezza cristiana fa capire che neanche quelle atrocità sono valse a cambiare l’uomo: la nuova Auschwitz è il mondo intero”. “Ora suono il violino al mondo mentre muoiono i nuovi ebrei, ora suono il violino al mondo mentre uccidono i fratelli miei”. Il male ci sarà sempre. Ma anche il bene.