Una leggenda, un campione ci ha lasciati: la morte di Kobe Bryant a 41 anni, nella serata italiana di domenica 26 gennaio, è arrivata come un fortissimo shock. Un fatale schianto in elicottero: con lui se ne va anche la figlia Gianna, insieme ad altre sette persone tra cui il pilota del velivolo. Le causa dell’incidente restano da chiarire; nelle strazianti ore che sono seguite, tutto il mondo dello sport (e ovviamente del basket in particolare) ha unanimamente riconosciuto, nei tantissimi messaggi di cordoglio, il modo in cui Kobe Bryant abbia cambiato la pallacanestro, quanto abbia dato al gioco, cosa sia riuscito a fare nei 20 anni di NBA in cui ha vestito la maglia dei Los Angeles Lakers. Sarebbe anche marginale parlare dei numeri, dei record, delle singole partite: Kobe è stato Kobe. Come ha detto Marcus Smart “non riuscivo a marcarlo, nessuno poteva”; tanti colleghi della NBA hanno candidamente ammesso (e questo anche quando era in vita) di essere cresciuti nel tentativo di emularlo; praticamente tutte le partite della notte NBA sono iniziate con le squadre che si sono “scambiate” infrazioni di 8 e 24 secondi, i due numeri di maglia di Kobe Bryant. IlSussidiario.net, per ricordarlo ulteriormente attraverso le parole di chi tra gli altri ne ha raccontato le gesta, ha contattato in esclusiva Guido Bagatta.
Kobe Bryant è morto: cosa ha pensato quando ha appreso la notizia? Ho pensato a tre episodi della mia vita quando l’ho incontrato. Primo: quando suo padre Joe Bryant giocava a Rieti e venne con Kobe appena bambino a trovare i giocatori della Virtus Roma all’Hotel Sheraton. Secondo: quando lo incontrai all’inizio della sua carriera nella NBA a Los Angeles. Terzo: quando ero presidente di Siena tre anni fa e lo incontrai a Portofino.
20 anni in NBA, cinque titoli, 18 partecipazioni all’All Star Game, gli 81 punti, a oggi quarto marcatore di sempre: i numeri non dicono tutto ma sono impressionanti. Dove lo colloca in un’ideale – per quanto aleatoria – classifica dei più grandi? Metto Wilt Chamberlain, Michael Jordan, Larry Bird, Magic Johnson e naturalmente Kobe Bryant in ordine sparso. Poi Lebron James, che però non ha ancora finito la sua carriera.
Di Kobe sono famosi alcuni aneddoti che lo descrivono come un maniaco del lavoro del volersi sempre migliorare: come scatta questa molla in un campione affermato? Kobe aveva capito che se devi essere al top, essere un campione, devi condurre sempre una vita regolare, fuori da qualsiasi eccesso. Solo così puoi essere un fuoriclasse dello sport!
I trascorsi in Italia, da ragazzino, lo hanno aiutato nei fondamentali – come lui stesso ha sempre detto – ma secondo lei sono stati anche importanti nel renderlo quell’allenatore in campo che abbiamo conosciuto? Sì, anche perchè Kobe ha imparato quei fondamentali così importanti qui in Italia e che non sempre nella NBA sono tanto rigorosi. Una cosa che per esempio riguarda anche Luka Doncic.
Cosa ha dato Kobe Bryant al basket moderno, dal punto di vista tecnico? Il suo tiro in fade away è probabilmente il suo marchio di fabbrica, un movimento esclusivamente suo.
Il discorso può apparire “secondario” o fuorviante, ma c’è un giocatore che, come lui ricordava Michael Jordan, sembra averne maggiormente raccolto il testimone? Credo che senza dubbio Steph Curry e Luka Doncic siano i suoi eredi nell’Nba.
Si è sempre detto che Kobe fosse anche un egocentrico, e che il rapporto con i compagni non sia mai stato semplicissimo a partire dal dualismo con Shaquille O’Neal: è stato però anche questo un punto di forza per diventare il giocatore che è stato? Se vuoi essere un campione devi essere così: solo così si può diventare numero uno nel proprio campo.
Tempo fa, ai tempi del lockout NBA, si era parlato di un possibile approdo temporaneo alla Virtus Bologna: cosa ci avrebbe dato il ritorno di Kobe Bryant nel nostro basket? Sarebbe stata una cosa bellissima, fantastica; uno spot eccezionale per il nostro basket.
Per concludere, come descriverebbe Kobe Bryant in una parola? Esaltante.
(Franco Vittadini – Claudio Franceschini)