Il 26 gennaio grande inaugurazione della stagione 2020 al Teatro Massimo di Palermo. Sala, palchi e gallerie pienissimi. Molte autorità in sala. Inizio dello spettacolo alle 17.30 con termine quasi alle 23 dopo 15 minuti di applausi scroscianti, con qualche timida riserva dal loggione. Si dava Parsifal di Richard Wagner: è solamente la terza volta che l’opera viene messa in scena a Palermo. In Italia, è opera che si rappresenta raramente dato il grande impegno produttivo che comporta. L’allestimento messo in scena a Palermo è una coproduzione con il Teatro Comunale di Bologna, dove verrà rappresentato la prossima stagione. A Bologna ricordo due eccellenti produzioni di Parsifal, benché molto differenti tra loro: una nel 1980 ed una nel 2014.
Del Parsifal visto ed ascoltato a Palermo (e che andrà nella città felsinea) voglio distinguere due aspetti: quello drammaturgico e quello musicale. Il creative team degli aspetti drammaturgici è composto da Graham Vick (regia), Timothy O’Brien (scene), Marco Tinti (costumi), Ron Howell (azioni mimiche) e Giuseppe Di Iorio (luci). Devo ammettere che l’allestimento scenico ha avuto il plauso del pubblico ed anche di gran parte dei critici presenti in sala. A mio avviso, l’ultimo capolavoro di Wagner, chiamato dall’autore Ein Bühnenweihfestpiel, tradotto in italiano “dramma mistico” o “dramma sacro”, è eminentemente religioso e trascendente. Quindi, astorico. Il creative team, invece, lo desacralizza situandolo nel Medio Oriente di oggi. Il Graal non è più la coppa in cui Giuseppe d’Arimatea conservò il sangue di Cristo ma siamo tutti noi se operiamo per la pace universale. Nella scena finale, dopo “la purificazione di Amfortas”, c’è un grande abbraccio tra americani, israeliani, sciti, sunniti ed una folla di bambini (le generazioni future che vivranno in pace).
A mio avviso, questa desacralizzazione di Parsifal ha poco a che a vedere con lo spirito dell’opera a cui Wagner lavorò oltre vent’anni. In altre produzioni degli ultimi anni, Parsifal ha avuto letture sceniche buddiste, panteiste, laiche e comunque non cristiane ma la trascendenza restava sempre al suo centro. L’azione scenica è stata condotta con grande perizia, come si addice ad un creative team di livello. Ma sono rimasto perplesso per tutto lo spettacolo ed non ho trovato convincenti le successive conversazioni con colleghi.
In un lavoro pubblicato circa dieci anni fa, pongo Parsifal tra le opere più apertamente cristiane di un Wagner settantenne che sin dalle sue prime opere ha trattato della lotta tra Bene ed il Male. In Parsifal siamo nel cuore del mondo del Graal (la coppa dove venne raccolto il sangue di Cristo sulla Croce venerata e protetta da un ordine di cavalieri puri). Il peccato è più che mai in agguato – Kundry, donna bellissima e sempre giovane, ha riso sul volto di Cristo sul Golgota ed è stata “condannata a non morire” sino a quando non verrà “redenta”, Klingsor si è auto castrato perché non poteva resistere alla tentazione carnale (un requisito per essere cavaliere del Graal) ed ora, minaccia il Tempio, ha ferito l’erede al Regno del Graal, Amfortas, con piaghe che progressivamente impediscono a quest’ultimo di celebrare l’Eucarestia; può essere vinto unicamente da un “puro folle”, per l’appunto l’innocente e selvatico Parsifal, che necessita una lunga iniziazione per “diventare sapiente tramite la pietà” e comprendere il mistero dell’Eucarestia, distruggere il Castello di Klingsor, purificare Kundry (e consentirle di morire serenamente) e Amfortas, prendendone il posto sia nella celebrazione dell’Eucarestia, sia nella guida del Regno del Graal. La conclusione è, però, “aperta”, forte segno di appartenere alla cultura occidentale: i Cavalieri del Graal, i loro paggi, i protagonisti ed una voce dell’alto invocano Erlösung dem Erlöser! (Redenzione al Redentore!), una visione secondo cui il Redentore deve essere continuamente lui stesso “redento” dall’umanità.
In Parsifal, infine, il contrasto tra il mondo pagano del peccato e quello cristiano della purificazione e della redenzione è accentuato in quanto, sotto il profilo musicale, il mondo del Graal è diatonico come quello dei Die Meistersinger, mentre quello di Klingsor e di Kundry (nei primi due atti) è cromatico come in Tristan und Isolde. Ridurre tutto ciò al conflitto in Medio Oriente ed alla sua pacificazione è banale, oltre che riduttivo.
Ma Wagner si vendica sempre di chi lo travisa. La produzione sfoggia una magnifica esecuzione musicale guidata dal nuovo direttore musicale del Massimo, Omer Meir Wellber. Meir Wellber e l’orchestra del Massimo (che ha il vantaggio, rispetto a quelle di altre fondazioni liriche, di avere una stagione sinfonica con grande bacchette ospiti) offre una lettura filologica, scevra dalle incrostazioni e modifiche di tradizione accumulatesi negli anni. Occorre sottolineare un aspetto che può sembrare pedante: esistono diari burocratici delle rappresentazioni del 1882 a Bayreuth sotto gli occhi vigili di Wagner e la bacchetta di Hermann Levi; tali diari determinano i tempi (un’ora e 45 minuti il primo atto, un’ora e 5 minuti il secondo, un’ora e 10 il terzo). Oggidì sono rarissimi i direttori musicali che seguono queste indicazioni: Levine, Kuhn, Thiellman e pochi altri. Con Toscanini – come è noto – il primo atto di Parsifal durava due ore e venti minuti. Con Boulez poco più di un’ora e mezzo. Omer Meir Wellber e l’orchestra rispettano rigorosamente i tempi stabiliti da Wagner e Levi e la differenziazione tra “mondo diatonico” e “mondo cromatico”. L’esecuzione mi ha ricordato la celebre registrazione stereofonica in studio guidata da Georg Solti alla metà degli Anni Settanta del secolo scorso. E non è poco.
Di grande livello il cast vocale iniziando da John Relyea nel faticoso e lungo ruolo di Gurmenanz. Ottimi l’Amfortas di Tómas Tómasson e il Klingsor diThomas Gazheli. Avrei preferito una Kundry più brunita (e più seducente) di Catherine Hunold. Ma il coup de théâtre di questo Parsifal è colui che debutta nel ruolo: il giovane Julian Hubbard, programmato come cover, ossia sostituto a disposizione in caso il titolare della parte non avesse potuto cantare, ha dovuto affrontare la prima (e tutte le repliche) mostrando grandi capacità attoriali e vocali, specialmente in brani di grande difficoltà come Anfortas! Die Wunde! Die Wunde! e Nur eine Waffe taugt.