Gentile direttore,
anche oggi è sorto il sole in Emilia-Romagna indipendentemente dai risultati elettorali. Questo non significa sottovalutare “la politica”, ma che “il mestiere del vivere” e la sua fatica, per dirla alla Cesare Pavese, quotidianamente urgono l’impegno nostro.
Certo, in questa campagna elettorale c’era tanto in gioco, da una parte e dall’altra, e questo spiega la partecipazione al voto e i toni da Armageddon finale. Ed è altrettanto evidente, nonostante alcune dichiarazioni trionfanti post-voto, che per tutti i soggetti politici in gioco non sarà più come prima.
Da una parte, il sussulto di orgoglio del Partito democratico emiliano-romagnolo e dei suoi elettori non può nascondere che anche qui in Emilia-Romagna un’epoca è (o era già?) terminata, non solo ideologicamente, ma concretamente in termini di risposte ai nuovi bisogni e alle esigenze sociali e che rimangono ben poche cinghie di trasmissione del consenso. “La paura” e “le sardine” non possono essere il collante adeguato per il futuro e la tentazione di una parte della nomenklatura di tirare un respiro di sollievo e riprendere come se nulla fosse successo sarebbe la pietra tombale definitiva.
Dall’altra parte non può bastare “la cavalcata del leader maximo” della Lega. L’accentuazione di contenuti estremi (immigrazione e sicurezza) e un certo modo di intendere la politica ha inciso negativamente sull’elettorato moderato (socialmente impegnato) di questa Regione, orfano di una rappresentanza politica adeguata.
L’impostazione della campagna elettorale del presidente Bonaccini (no simbolo Pd e lista aperta all’esterno) e il successo delle liste civiche degli amministratori locali nei rinnovi del 2019 in contemporanea al voto delle europee (quasi plebiscito Lega) possono essere i primi segnali di un modo diverso da prima del fare politica, di una politica amministrativa meno incombente e settaria, più attenta alle comunità locali, che sappia lasciar spazio e favorire l’intrapresa dei singoli e delle realtà che operano nel territorio, valorizzando ciò che esiste in un principio sussidiario reale.
Nuove edizioni rivedute e corrette del vecchio modello di consenso? Difficile dirlo oggi. Quello che è evidente è che le lenti dell’ideologia non sono più in grado di leggere la realtà dell’oggi.
L’elettore ben coglie chi è nel territorio. Prima e dopo qualsiasi inclinazione partitica prevale il rapporto, il contatto, il dialogo. Essere e sentirsi comunità. D’altronde, nella terra di Guareschi non potrebbe non essere così.
Un’opportunità grande si è aperta per chiamare davvero le migliori energie a collaborare nel disinnesco della bomba sociale su cui siamo seduti e che fa, inesorabilmente, tic-tac.
Parlo di un sistema di welfare che ha bisogno di essere rifondato, per reggere alle sfide – enormi – di una popolazione che qui in Emilia-Romagna in capo a 10 anni sarà per il 37% ultrasessantacinquenne, che vede famiglie affrontare a mani nude la sfida del precariato e che relegano nell’album delle cose impossibili l’obiettivo della conciliazione dei tempi vita-lavoro.
Il possedere una casa non può tramutarsi in una dannazione che preclude ogni forma di sostegno, causa un Isee alle stelle.
Parlo della questione ambientale, che è essa stessa un pilastro di un moderno welfare e non può ridursi a qualche migliaio di colonnine per la ricarica elettrica di auto che solo pochi si possono permettere.
Famiglia, lavoro, ambiente: tre grandi temi che si intersecano. L’agenda del cambiamento è questa. Occorrono persone di buona volontà e la consapevolezza che una nuova maturità del pensiero moderato – per troppo tempo confuso con l’impossibilità gattopardesca di prendere una posizione pubblica – è la più attesa e forte delle rivoluzioni.