Il 21 gennaio 1920, nella scintillante e affollata Galerie des Glaces della Reggia di Versailles, si chiudeva la conferenza di pace più discussa della storia moderna: quella che sanciva l’assetto geopolitico determinato dalla sconfitta e dalla caduta degli Imperi centrali nella Prima guerra mondiale.
I rappresentanti delle potenze vincitrici erano scesi dal Palais de l’Elysée e dai treni speciali, alla Gare de Lyon o alla Gare du Nord, non solo pronunciando un fatale “vae victis!”, ma anche sostanzialmente poco preparati quanto ad un programma di scioglimento d’alcuni nodi gordiani assai intricati: la “Questione italiana” (quella che darà, non solo a D’Annunzio, titolo per parlare di “vittoria mutilata”); le rigide teorizzazioni del presidente americano Thomas Woodrow Wilson; la sottovalutazione della “Questione d’Oriente”. Le cui problematiche risalivano almeno a mezzo secolo; alla lunga agonia dell’Impero ottomano, il dovizioso “gran malato d’Europa”, che pur con la sua immobile vecchiaia e i suoi decubiti infetti, veniva guatato da occhi numerosi e rapaci.
La Sublime Porta era stata un modello di gestione dei propri territori forse superiore a quello dell’Impero austro-ungarico. Una burocrazia di spessore ne amministrava le quote parti secondo schemi sapienti: il potere centrale a Costantinopoli, con un sultano e califfo dell’islam appartenente alla dinastia sunnita di Osman, il Gran Vizir, l’apparato della corte e dei ministeri; le province o vilayet con a capo un wali; i sanjak (distretti) guidati dal sanjak-bey; la regione a statuto speciale del Libano con un mutassarif cristiano; una serie di regni o vice-regni vassalli, come l’Egitto dal 1848 affidato a un Khedive o (tra gli altri) il principato di Moldavia, lo sceiccato del Kuwait, l’emirato di Dancala e i bey dell’Africa mediterranea, da Algeri a Misurata e Tripoli.
Tutti costoro godevano d’una non trascurabile autonomia, mai sottratta però al controllo del Topkapi e della Porta, vuoi attraverso i governatori (appartenenti ad una propria, prestigiosa carriera), vuoi attraverso l’intervento diretto del Gran Vizir. Due esempi fra i molti, tutti a Bagdad, in quell’Iraq-Arabia che stava assai a cuore al sultano Abdu’l Hamid II: il rifiuto della sepoltura del gran rabbino Abdallah Somekh (morto di colera del settembre 1889) nel mausoleo del profeta Aggeo da parte dei custodi musulmani, con la rivolta della comunità ebraica, gli scontri, l’eco sui giornali di Londra e l’immediata sostituzione del wali Mustafa ’Asim pasha con il ben più intelligente Giritli Selim Sirri pasha (che dovrà far le scuse della Porta al nuovo gran rabbino).
E poi i disordini del Venerdì Santo 1906, quando la certezza di un assalto di fanatici musulmani alla comunità cristiana aveva fatto scendere nelle strade di Bagdad buona parte della guarnigione ottomana, che senza troppi complimenti aveva spento ogni “soif de sang chrétien”. Una protesta ufficiale del Foreign Office a Costantinopoli non era comunque mancata.
Tal possente ed ormai militarmente debole impero era stato sbocconcellato in modo crescente prima dalla Russia in Bessarabia, poi dalla Gran Bretagna in Egitto e dall’Italia in Libia; quindi dalla guerre greche e balcaniche. Pur con il sinistro e arrogante governo dei tre pasha (Enver, Talaat e Cemal), alla vigilia della Grande Guerra, la Francia in Siria e Libano e la Germania in Iraq, non facevano segreto di voler stabilire zone d’influenza profonda. I primi perché “ce terrain nous est moralement reservé”; gli altri perché avevano assai investito sulla linea ferroviaria Berlino-Bagdad, tempestivamente consci dell’importanza delle riserve petrolifere dell’area mesopotamica.
Gli scenari operativi aperti au Moyen-Orient dalla Guerra mondiale sono troppo noti per esser qui ricordati: certo è che il Regno Unito si mosse in Iraq e in Arabia – grazie a Mark Sykes, a lord Kitchener, al generale Allenby e beninteso a Thomas E. Lawrence – in modo più geniale della Francia in Siria e Libano: il marchiano errore del console generale a Beirut, François-Marie Georges-Picot, che nel novembre del 1914 aveva lasciato tutti i dossier segreti nel consolato in fretta abbandonato, preda immediata di Bekir bey e della sua polizia turca, era stato la causa dell’impiccagione dei capi della resistenza libanese. Furono proprio Georges-Picot e Sykes, tuttavia, a siglare il 23 maggio 1916 il celebre Agreement, l’accordo inteso a dividere gli imminenti avanzi dell’Impero ottomano tra United Kingdom e République Française.
Nonostante le presenze del principe Faysal bin al-Husayn, figlio del Grand Sharif della Mecca e dello stesso Lawrence, ossia dei capi carismatici di quella rivolta araba che aveva appianato una notevole parte dei problemi inglesi sul fronte di guerra sudorientale, la conferenza di Versailles non intese innovare la sostanza dell’accordo Sykes-Picot, i suoi particolarismi e le sue ambiguità. Che cresceranno a dismisura dopo i Trattati di Sèvres e di Losanna, disegnando una geografia medio-orientale per sempre irrisolta. E finendo per sostituire alla tirannide cosmopolita dei sultani quella colonialista delle potenze mandatarie.
L’egoismo e la non lungimiranza (soprattutto quanto a Palestina ed Iraq), rimangono i peccati che hanno segnato non solo la Conferenza di Versailles, ma l’intera storia dei trattati nel decennio 1913-1923.