Sono passati oltre 30 anni dalla morte di Antonio De Falchi, giovane 18enne, tifoso romanista, ucciso fuori dallo stadio San Siro prima della partita Milan-Roma (che poi si giocò ugualmente). Antonio fu vittima di un vero e proprio agguato di ultrà rossoneri che lo riconobbero dall’accento e con la scusa di chiedergli una sigaretta lo uccisero. Un anno fa, è andata via anche la madre Esperia. Oggi è la sorella Anna De Falchi a tenere vivo il suo ricordo in una intervista rilasciata al Corriere della Sera. Lei ha rinunciato alla sua vita privata per badare alla madre. Sul balcone, da quasi 31 anni c’è ancora parcheggiato il suo Boxer, lo scooter Piaggio ormai arrugginito e senza pedali. “Quando Antonio tornava dal lavoro non pensava che al motorino: stava sempre a lucidarlo, aggiustarlo, coccolarselo. Per questo mamma non l’ha voluto buttare. Le piaceva tenerselo vicino…”, ha ricordato la donna, oggi 54enne. Poi è cominciato il racconto del suo viaggio verso Milano, dove incontrò la morte. “Noi gliel’avevamo detto che era pericoloso! Ma alla Roma non rinunciava. Pensi che la sera prima, quando passò il suo amico per andare alla stazione Termini, io attaccai il citofono, ma lui aveva sentito lo squillo e scappò giù. Mia madre gli aveva preparato la parmigiana di melanzane, però non ha fatto in tempo a mangiarla…”.
ANTONIO DE FALCHI, ROMANISTA MORTO A SAN SIRO: UCCISO DAGLI ULTRÀ?
Antonio De Falchi era l’ultimo di 8 figli, il piccolo di casa. La sorella Anna lo descrive come un ragazzino “sveglio, allegro”. Dopo la fine delle scuole medie, spiega ancora Anna, Antonio aveva trovato vari lavoretti, come tappezziere e poi come fabbro. “Quando successe il fatto, papà non c’era già più. Tre anni prima aveva avuto un crollo nervoso, per un avvelenamento da funghi. Si buttò di sotto…”. Papà si chiamava Enrico, all’epoca faceva l’addetto d’ascensore alla Rinascente. La mente quindi si sposta a quel 4 giugno: “Era mezzogiorno passato, la tv non l’aveva ancora detto. Come sempre per le cose brutte, vennero le guardie a casa. Mamma strillava “se siete qui significa che Antonio è morto!”, e loro negavano, dicevano che era in ospedale, ma solo per consolarci”. La famiglia partì per Milano per il riconoscimento: “Mamma nella camera mortuaria lo abbracciò e gridò: “Pulcino mio, ti riporto a casa!” Era chiaro che gli avevano menato: aveva la testa fasciata e il corpo pieno di lividi”, dice la sorella. Eppure ai giornalisti dissero che era morto “per una disfunzione cardiaca”: “Falso!”, tuona Anna. “Aveva una coronaria più piccola, un fatto congenito. Senza complicazioni. Antonio stava bene, faceva culturismo. Aveva superato la visita militare”, ha spiegato. Secondo il racconto della donna, la canotta era a brandelli, “strappata a calci, altro che malformazione!”. Per la morte di Antonio un ultrà milanista fu condannato a 7 anni di carcere, altri due furono assolti.