La prima puntata delle primarie democratiche è finita in farsa tra gli sfottò dell’odiatissimo Trump che girava il classico coltello nella piaga chiedendosi con che credibilità i democratici possono candidarsi a guidare il Paese. La questione per chi non avesse seguito la vicenda è questa; ieri mattina, ora italiana, avremmo dovuto sapere i risultati delle primarie democratiche dell’Iowa invece in serata regnava il caos con un candidato, Pete Buttigieg che proclamava la vittoria, in assenza di dati definitivi e certi, e Sanders che rispondeva comunicando i propri dati provvisori che lo vedevano in vantaggio. La “debacle” è il risultato di un nuovo meccanismo di voto, già abbastanza complicato, che ha trovato la macchina democratica impreparata. Siccome i democratici si preparano a queste primarie da tre anni e mezzo qualcuno legittimamente si è chiesto cosa è andato storto. Oltretutto i difetti del sistema che doveva aprire le primarie erano sostanzialmente prevedibili.
Nonostante il caos si possono tirare un po’ di conclusioni. Il partito non si è ancora “ripreso” dalla rocambolesca nomination e poi sconfitta di Hillary Clinton; Bernie Sanders nel 2016 era arrivato “vicinissimo” alla nomination e respinto sulla soglia sostanzialmente con ogni mezzo dall'”establishment” democratico. Il socialista e vecchio Sanders è tornato prepotentemente, e contro le previsioni, tra i favoriti; quello che è successo ieri riapre la ferita nel corpo dei democratici dove una parte continua a chiedersi se il sistema non sia “rigged”, truccato, per impedire la nomination di Sanders e favorire qualsiasi altro candidato. L'”app” che avrebbe dovuto presiedere al conteggio è stata creata da una società il cui management ha lavorato per la campagna di Hillary nel 2016 e che poi ha fatto il tifo per Buttigieg. Insomma, i sospetti dei supporters di Sanders potranno solo aumentare. Oltretutto, per un’altra strana coincidenza, i sondaggi domenica non sono stati pubblicati; sapevamo però, per esempio dalle quote dei scommettitori, che Sanders era dato vincente con una probabilità vicina al 70%.
Le primarie dell’Iowa avrebbero dovuto quanto meno darci una indicazione iniziale su chi si poteva giocare la partita. Dopo la confusione di ieri abbiamo comunque scoperto che, a oggi, Joe Biden, già vicepresidente con Obama, è indietro rispetto a un terzetto composto da Bernie Sanders, Pete Buttigieg ed Elizabeth Warren. Per questo il vero beneficiario del disastro dell’Iowa potrebbe essere proprio Biden che potrebbe ridimensionare la sconfitta in un’elezione che verrà in qualche modo depotenziata. La sua nomination però sembra in salita. Pete Buttigieg ha la pecca di essere troppo “assimilabile” alle grandi multinazionali californiane (è tra l’altro l’utente 287 di Facebook) e in generale alle “odiatissime” corporation; il suo passato a Mckinsey non suscita le simpatie più sfrenate dell’elettore incavolato con il “sistema”. Elizabeth Warren è indietro, ma soprattutto è il candidato “progressista” numero due dietro all’originale Sanders. Questo è il problema perché Sanders appare come la minaccia più credibile al sistema; pensiamo solo alla proposta di imporre un ridimensionamento delle grandi banche americane in modo da limitarne il potere di ricatto. Sanders è il vero “cigno nero” anche per la finanza ed ancora oggi è il candidato di una protesta che evidentemente è ancora fortissima.
Il problema del partito democratico è come fermare Sanders. Joe Biden al momento non sembra un’alternativa forte. Pete Buttigieg rischia di non riuscire a togliersi di dosso l’immagine dell'”amico delle multinazionali”. L’inizio delle primarie democratiche è stato sostanzialmente posticipato e il partito ha guadagnato tempo. L’ipotesi che all’ultimo salti fuori un candidato, ieri si parlava di Kerry, per sbarrare la strada a Sanders rimane sul tavolo. Le questioni per i democratici però rimangono irrisolte. La prima, il vero elefante nella stanza, è la retorica sulla presidenza Obama che rimane un mostro sacro intoccabile e incriticabile dopo quattro anni e dopo l’elezione di Trump. I democratici non possono non fare i conti con questa analisi perché spiegare che il puzzone di Trump ha vinto grazie a Putin diventa sempre più complicato; perché l’americano medio nel 2016 ha voltato le spalle alla presidenza Obama? Nonostante un premio nobel e chilometri di retorica? Questa è la questione e la risposta si rintraccia nella gestione della crisi del 2008.
La seconda questione è questa: Sanders, dicono molti democratici, è troppo “socialista” per essere un buon candidato. Va bene per la nomination, ma poi quando il gioco si fa duro, a novembre, è un candidato perdente “perché non sfonda al centro”. Questo è il ragionamento del 2016 quando non si è capito cosa bolliva nella pancia dell’America con Trump che prima sbaragliava la concorrenza alle primarie repubblicane e poi metteva a segno una rimonta impensabile. L’impressione è che Sanders sarebbe riuscito dove Hillary Clinton ha fallito. Forse la situazione è cambiata, ma intanto il gradimento di Trump segna i massimi dall’inizio della sua presidenza. Questo è il conto di quattro anni di impeachment, collusioni russe ecc. Forse tutto vero, ma sicuramente anche grandi alibi per non fare i conti con il 2016. Con i democratici che alla fine continuano a essere il partito che ha “salvato la finanza” senza cambiare niente. Un partito che si è fatto superare persino su uno storico programma dei democratici come il protezionismo economico “salva lavoratori”. Alla fine l’unico che può permettersi di non fare i conti è proprio Sanders…