“Se la sovranità dell’Unione dovesse impegnarsi in una lotta contro la sovranità degli Stati (membri), la sua sconfitta, al giorno d’oggi, può essere facilmente predetta; anzi, risulta alquanto improbabile che una tale battaglia possa essere seriamente intrapresa … Se uno dei paesi membri decidesse di recedere dal trattato (dell’Unione), sarebbe difficile contestare il suo diritto di farlo, e il governo centrale non avrebbe possibilità alcuna di mantenere le sue prerogative, né con la forza, né con il diritto …L’Unione è stata formata dall’accordo volontario degli Stati; essi unendosi insieme, non hanno rinunciato alle loro prerogative nazionali, né si sono ridotti alla condizione di un solo ed unico popolo.” A scrivere queste parole non è un disincantato osservatore dell’Unione europea ai giorni nostri a seguito della Brexit. È Alexis de Tocqueville, studioso severo e pessimista sul futuro degli Stati Uniti. Certo quando scrisse la “Democrazia in America” non poteva prevedere lo scoppio di una guerra civile (1861) molti anni dopo l’adozione di quella gracile Costituzione (1789). Costituzione che, peraltro, prese il posto di un ancor più fragile strumento di “governance” tra le ex colonie, gli articoli della Confederazione (1777).
Eppure questa visione, in verità impeccabile a un’analisi coeva dei nascenti Stati Uniti d’America, fa giustizia di uno dei topos culturali più diffusi di cui si nutre la narrazione anti-europea. Nessun accostamento può essere fatto tra Ue e Stati Uniti, fenomeni assolutamente eterogenei e non sovrapponibili. Come se gli Usa fossero nati da un colpo di bacchetta magica della storia. Pre-esistessero a se stessi piuttosto che essere il frutto di un lungo, faticoso e per nulla scontato cammino. L’Europa certo che no signora mia. L’Europa non potrà mai essere unita, avere una sola voce nel mondo, delle istituzioni da Stato federale. Troppe le sue differenze al suo interno per immaginarla un giorno come la potenza americana.
Sarà vero? Non esattamente. Le persone che andavano a sistemarsi nel Nuovo Mondo erano le più eterogene e diverse si possano immaginare. Mentre i più erano venuti dall’Inghilterra, alcuni provenivano dalla Svezia, dalla Norvegia, dalla Francia, dall’Olanda, dalla Prussia, dalla Polonia e da altri paesi. Le loro fedi religiose erano diverse ed erano spesso fortemente sentite. C’erano cattolici, anglicani, calvinisti, protestanti dissidenti, ugonotti, luterani, quaccheri, ebrei e alcuni erano agnostici. Parlavano dunque differenti lingue anche se poi tutti impararono l’inglese.
È dunque, dal punto di vista dello storico, semplicemente falso che l’Europa, con le sue tante lingue e culture, non potrà mai essere uno Stato federale unitario perché troppo diversa. È piuttosto vero il contrario se si guarda il passato senza gli occhiali dell’ideologia del popolo metafisico di Savigny. Ha ragione infatti il filosofo tedesco Jurgen Habermas che osserva che “i popoli emergono con le Costituzioni dei loro Stati”. Funziona ricorrentemente così.
Pre-esisteva forse un popolo svizzero? Canadese? Belga? E chi meglio di noi sa che vi è un prima, in cui si costruiscono gli scheletri istituzionali, e un dopo, in cui si pensa al demos e al cemento spirituale per quelle istituzioni. La preoccupazione d’azegliana di “fare gli italiani” è certamente seguita l’insediamento del primo Parlamento unitario. Secondo De Mauro, l’illustre linguista italiano, all’indomani dell’unificazione la percentuale degli italofoni si aggirava intorno al 2,5% su 25 milioni. Percentuale minore dei giovani europei in giro per il continente e di coloro che sul continente parlano l’inglese.
Se le cose stanno così, nessuno sa, a priori, cosa sarà del continente europeo nei prossimi cento anni. Dipenderà solo da cosa decideranno gli europei. Europei che al momento sono impegnati nel lanciare l’ennesima conferenza sul futuro dell’Ue. Per tale motivo, il 31 gennaio scorso, i tre presidenti, Ursula van der Leyen per la Commissione, David Sassoli per il Parlamento europeo e Charles Michel per il Consiglio europeo si sono dati appuntamento nella casa che fu abitata da Jean Monnet, nel piccolo comune francese di Bazoches-sur-Guyonne. L’obiettivo era provare a dare delle direttrici meno vaghe al mandato della conferenza facendo convergere le tre istituzioni. La dichiarazione congiunta, come tradizione non priva di ottimi auspici e comprensibile retorica nel momento del commiato da Londra, rileva quanto sia ancora faticosa la strada per un intesa.
La Commissione aveva infatti il 22 gennaio scorso adottato una comunicazione nella quale si indicava una durata di due anni e si fissava per il 9 maggio 2020 (festa d’Europa e data simbolica della dichiarazione di Schuman) l’inizio dei lavori delineando due linee programmatiche parallele al loro svolgimento. La prima incentrata sulle priorità e gli obiettivi dell’azione europea dei prossimi anni. Tra di esse la comunicazione annovera il climate change e le sfide ambientali, un’economia più vicina alla gente e attenta alle diseguaglianze, la trasformazione digitale, la promozione dei valori europei nel mondo con il rafforzamento della voce dell’Unione nell’agone internazionale, il consolidamento e rinvigorimento delle basi democratiche.
La seconda linea è invece tutta indirizzata ad affrontare le sfide istituzionali del futuro, in particolare nel dare risposte a quelle istanze di rafforzamento dei processi democratici: leggasi Spitzenkandidaten e liste transnazionali. La forte indicazione che emerge dalla Commissione è comunque l’assoluta necessità di strutturare un percorso bottom-up, dal basso, che prevede un ampia consultazione popolare, nelle forme anche tecnologiche di maggiore coinvolgimento possibile dei cittadini europei. Assolutamente convinto della necessità di far uscire il dibattito sul futuro dell’Europa fuori dalla Brussels Bubble è anche il Parlamento europeo che ha da subito rivendicato un suo ruolo di preminenza nella conduzione dei lavori quale unico organo comunitario legittimato dai cittadini. Sacrosante intenzioni se non si intende ingrassare ulteriormente le posizioni populiste e sovraniste, magari evitando pure di ripetere l’errore della precedente Convenzione sul futuro dell’Europa presieduta da Giscard d’Estaing, il cui esito venne bocciato da due consultazioni popolari (Francia e Paesi Bassi).
Tutto questo agitarsi non pare tuttavia abbia turbato più di tanto il Consiglio europeo. L’istituzione rappresentativa degli Stati che, non lo si dimentichi, continuano ad avere in mano i destini dell’Unione non meno di quanto accadeva ai tempi di Tocqueville negli Stati Uniti. Nella riunione del 12-13 dicembre 2019 i capi di Stato e di governo europeo, pur prendendo in considerazione “l’idea di una Conferenza sul futuro dell’Europa da avviare nel 2020 e portare a compimento nel 2022 […] che dovrebbe contribuire allo sviluppo delle politiche dell’Unione nel medio e lungo periodo (facendo) tesoro della positiva esperienza acquisita con i dialoghi con i cittadini tenutisi negli ultimi due anni”, hanno rinviato ogni decisione in proposito, dando mandato alla “presidenza croata del Consiglio di adoperarsi per definire una posizione del Consiglio sui contenuti, la portata, la composizione e il funzionamento di tale conferenza”. Tradotto, il processo non deve e non può sfuggire di mano agli Stati, né produrre “sorprese” che magari dalle consultazioni dovessero emergere. Per gli Stati Uniti d’Europa c’è sempre tempo.