Un po’ di storia. All’inizio del XX secolo – ricorda una miscellanea della Oxford University Press, Transnational Policy Flows in European Education – nacquero in parallelo due filoni di pensiero e di azione che avrebbero caratterizzato tutta la pedagogia e la pratica didattica seguente: l’attivismo costruttivista, di cui si ricorda la figura della estone-americana Hilda Taba, e la spinta alle valutazioni standardizzate esterne, di cui importante patrocinatore fu lo svedese Torsten Husen, uno dei principali fondatori di Iea (International Association for the Evaluation of Educational Achievement).
Al di là della rivendicazione del ruolo avuto anche dal mondo scandinavo, oltre a quello anglosassone, in questi sviluppi, ciò che qui interessa è la comune, anche se parallela, matrice progressista di ambedue i filoni. Una élite intellettuale nordica ha generato allora, in opposizione al positivismo “sviluppista” antecedente alla Prima guerra mondiale, filoni di pensiero (ecologismo, interesse per il corpo, orientalismo, diffidenza per la tecnica e lo sviluppo) che stanno diventando il nuovo conformismo di massa un secolo dopo.
All’inizio dunque le pratiche comparativiste sulla base dei test furono strettamente connesse al mondo pedagogicamente progressista. La cosa potrebbe oggi stupire. Se infatti le metodologie attive sono tuttora nella percezione comune rimaste nello stesso campo (stiamo parlando delle buone intenzioni, non dei risultati effettivi), le valutazioni standardizzate sono state collocate nel campo avverso.
Infatti la sinistra attuale italiana esprime in generale diffidenza, se non contrarietà, verso le valutazioni standardizzate. E non solo quando si tende ad esagerare nel loro uso, come avviene nei paesi anglosassoni, ma anche in un caso, come quello italiano, in cui è chiaro che il problema eventualmente è una loro troppo limitata incisività.
Si tratta peraltro di un fenomeno non solo italiano, anche se nel nostro paese assume caratteristiche virulente, in mancanza di uno Stato capace di assumere le decisioni di policy con determinazione e pertanto in presenza dello strapotere delle corporazioni, in questo caso gli insegnanti ed i loro sindacati.
Inoltre nel nostro paese, per ovvie ragioni storiche, è forte il mito della cultura umanistica – un mito, visto il basso livello di cultura effettivo della popolazione nel suo complesso – che contrappone un modello educativo capace di sviluppo del senso critico, eccetera eccetera ad una formazione “a base di quiz”. Espressione che dimostra che questi critici, di prove Pisa o Invalsi, non ne hanno vista nemmeno una, poiché a volte viene da osservare che, al contrario, alcune di queste sono anche troppo intellettualmente esigenti.
Chi incarna massimamente questo atteggiamento è sorprendentemente la sinistra, che ha sempre osteggiato le valutazioni standardizzate, con l’eccezione del socialista Visalberghi, insigne pedagogista fiorentino di parte laica che fu fra gli iniziatori e sostenitori di Iea, la madre di tutte le valutazioni.
Una ragione è la lettura produttivistico-capitalistica che ne viene spesso fatta. La sinistra oggi non è più quella di un secolo fa, che aveva assunto l’idea marxiana che il comunismo doveva il suo felice destino storico al fatto che avrebbe “sviluppato le forze produttive” più di un capitalismo destinato alla crisi. Le brucianti smentite della storia hanno generato una sinistra con caratteristiche diverse, per certi versi antitetiche: da un lato l’attenzione ai diritti individuali di libertà, dall’altra l’attenzione ai poveri, agli svantaggiati, in parte a quello che Marx avrebbe chiamato Lumpenproletariat (sottoproletariato). Ciò che spiega peraltro quella convergenza con il cattolicesimo in tanti punti delle reciproche sensibilità, che ha trovato la massima espressione in quello che è stato definito cattocomunismo.
Per questo modo di pensare, il problema non è quello di elevare al massimo il livello di tutti e di valorizzare le eccellenze, superando i limiti del ceto sociale di appartenenza. Si preferisce puntare l’attenzione sui livelli per varie ragioni più bassi, dando la preferenza ad un’equità di basso livello e considerando con diffidenza tutto ciò che emerge, in quanto risultato e causa insieme della gerarchizzazione sociale.
Ed ecco che le valutazioni standardizzate vengono varate dal governo di centrodestra della Moratti e soprattutto che gli accademici, che fanno oggi sostanzialmente riferimento o al mondo cattolico o a quello della sinistra, esprimono diffidenza e coerentemente con ciò non sviluppano scuole scientifiche su questo terreno, attardandosi in atteggiamenti parenetici e predicatori. Fino ad arrivare al caso limite di M5s, la cui mission sembra essere stata, oltre a quella di procurare ad ogni docente la cattedra sotto casa, quella di azzoppare in ogni modo economico e normativo l’Invalsi. La sinistra riformista ha assunto posizioni responsabili, ma nel mondo della scuola è piuttosto debole. D’altra parte nel nostro paese la destra sembra ben poco interessata all’istruzione, salvo nel periodo Moratti-Aprea; l’ultimo clamoroso esempio ne è stato il ministro della Lega, Bussetti, recentemente sostituito.
Che i giochi comunque anche a livello internazionale siano piuttosto misti lo rimostra il fatto che No Child Left Behind (Nessun bambino sia lasciato indietro), la cui finalità è chiaramente illustrata dal nome stesso, fu varato da un presidente americano repubblicano.
In questo quadro si colloca la curiosa opzione della sinistra italiana di celare o negare la situazione della scuola del Sud, affermando che la scuola italiana è a macchia di leopardo e chiudendo gli occhi di fronte alla palese inattendibilità dei voti, soprattutto quelli di maturità, che danno accesso al mercato del lavoro pubblico con il loro prosieguo nelle università. Un gioco al ribasso che però sta rendendo sempre meno, come dimostra la diminuzione delle iscrizioni universitarie al Sud; una volta raggiunto un certo livello, chi può prosegue nelle scelte elitiste trasferendosi direttamente alle Università del Nord. In una recente occasione pubblica un rappresentante non di secondo piano dell’amministrazione ha paventato il rischio che queste tendenze si allarghino alla scuola superiore.
Una posizione tanto più incomprensibile, in quanto una buona parte delle cause della situazione della scuola del Sud è dovuta a motivi sociali. Emergono con sempre maggiore chiarezza dai dati (che si spera vengano sempre più accuratamente analizzati) la segregazione sociale e l’elitismo della minoranza privilegiata del Sud che si rassegna a lasciare la sua plebe territoriale nell’ignoranza, anche attraverso il paternalismo che misura solo i progressi e non anche gli esiti.
Eppure si tratterebbe di un classico tema di giustizia sociale, un classico della sinistra, per come l’abbiamo nel passato conosciuta. Quante maestre emencipazioniste venute dal Sud con una solida preparazione professionale hanno riempito i ruoli delle scuole del Nord e non solo nelle valli sperdute? Sapevano parlare ed insegnare un ottimo italiano.
Rimane la domanda su cosa sia meglio per evitare un’ingiusta e disfunzionale gerarchizzazione sociale: una foto impietosa da cui emerga chiaramente il peso dell’Escs (stato economico-sociale), premessa di azioni utili a contrastare questa situazione, o una nebbia benevolente in cui la riproduzione sociale si perpetui sotto specie della genetica e delle predisposizioni naturali?