Le ultime pasticciate circolari del Miur e del ministero della Salute, relative alla prevenzione dal coronavirus diffusosi a macchia d’olio in Cina, suggeriscono un tema che sembrerebbe totalmente estraneo all’ambito educativo: la paura.
Si può fare, a scuola, esperienza della paura? Evidentemente sì, per quanto si tratti di distinguere tra varie tipologie del fenomeno. Anzitutto, occorre dire che non è affatto scontato che determinati soggetti, magari fragili e non adeguatamente sostenuti da un ambiente familiare/parentale, non abbiano paura perché sono a scuola. La scuola è un luogo protettivo e solitamente accogliente, ma non solo. Si tratta di un luogo pubblico, dove non ci si può nascondere, dove si fanno le prime verifiche della capacità di rapportarsi agli altri coetanei.
La prima paura si può dirigere proprio verso l’ambiente scolastico in quanto tale. Il livello di ansia che l’alunno percepisce per questo spazio aperto può raggiungere indici molto alti, come insegna un’ampia letteratura di impronta psico-pedagogica.
Fa poi parte della “paura per la scuola e i suoi meccanismi” la paura della verifica, del voto, della valutazione/interrogazione. Un affanno sano e produttivo, si potrebbe dire. Se non si traducesse, talvolta, in veri e propri drammi personali, incubi e difficoltà a contestualizzare una situazione che dovrebbe essere normale nella vita: tutti siamo prima o poi giudicati, anche gli adulti. Ma sarebbe sterile raccomandarlo a certi alunni (piccoli, grandi: non importa) che, chiamati a dare conto di quanto appreso, attorcigliano le mani, strabuzzano gli occhi, smozzicano le poche parole che gli escono di bocca perché colti improvvisamente dall’angoscia! Eppure, sostengono i genitori negli incontri periodici con gli insegnanti, a casa sapevano ripetere perfettamente la lezione. Se non è esperienza della paura, questa, che cos’è?
Fin qui la paura scaturisce dalla sfera dell’interiorità. Ma esiste anche, nella scuola, il timore dell’altro. Il Miur a proposito di bullismo e cyberbullismo tra i banchi da alcuni anni sta attivando piani nazionali per la prevenzione delle prepotenze perpetrate da bambini e ragazzi nei confronti dei loro coetanei.
L’ultima indagine Istat in proposito, fatta anche oggetto di una recente audizione parlamentare, è del 2014 e si basa su un campione di 11-17enni, a cui è stato chiesto se avessero subìto una o più prepotenze/soprusi, diretti o mediante social, nei 12 mesi precedenti l’intervista. Il risultato è che più del 50% degli intervistati riferisce di essere rimasto vittima di un qualche episodio offensivo, non rispettoso e/o violento di carattere direttamente personale.
Le prevaricazioni, ovviamente più o meno accentuate a seconda dei livelli di età, oltre che essere una manifestazione di malessere culturale hanno anche una base sociale. Infatti, sottolinea il documento Istat, tra i ragazzi che vivono in zone poco o per nulla disagiate si registra la quota più bassa di soggetti che hanno subìto atti prevaricatori da parte di coetanei (50,3%); tra coloro che vivono in zone molto disagiate tale quota sale al 55,4% e si registra la quota più elevata di vittime (23,3%) di prepotenze che avvengono con assiduità (almeno una volta al mese).
Per quanto riguarda i media digitali, posta la larghissima diffusione dei cellulari (nel 2014 era dell’85,8% nella fascia di età indagata, oggi sarà molto di più), il cyberbullismo ha colpito il 22,2% di tutte le vittime di bullismo. Se a tutto questo si associa poi lo stalking con vittime minorenni, come lo denomina il documento Istat (le molestie, le minacce, le percosse e le lesioni, l’ingiuria e la diffamazione, il danneggiamento, il furto e la rapina, gli atti persecutori, la sostituzione di persona con l’utilizzo di profili falsi, per arrivare, in rari casi, resi tristemente noti dalle cronache, all’istigazione al suicidio), il panorama non è certo rassicurante.
Rincara la dose l’Unesco nel rapporto sul bullismo del 2019, che allarga la visuale al mondo intero: un ragazzo su tre sarebbe stato vittima di bullismo fisico o psicologico. L’organizzazione fa presente che in numerosi paesi la violenza fisica proviene dagli stessi docenti: nonostante sia legalmente proibita in 132 Paesi, è ancora permessa in 68 sotto forma di punizioni corporali.
Sembrerebbe di poter dire che la scuola cammina su uno strato di sofferenza, acuita ai nostri giorni dalla sindrome cinese e dai maldestri tentativi del ministero di velare un fatto che si può appurare in tempo reale: la diffusione del virus. Certo non c’è da allarmarsi e occorre fidarsi delle autorità mediche, eppure per quanto ci si stia adoperando per arginare l’epidemia, specie nelle regioni orientali più colpite, serpeggia anche nella scuola l’inquietudine.
Che fare? Senza essere esperti psicologi è lecito osservare che dalla paura non si guarisce da soli. Da evitare, a maggior ragione, sono le pratiche “fai-da-te” o le decisioni prese in piccole comunità e piccoli gruppi, magari familiari, in cui si autodetermina un proprio territorio da difendere e si stabiliscono norme improvvisate.
Per guardare in faccia la realtà è molto più razionale trasformare la paura in una domanda: se non siamo padroni e artefici della nostra vita, chi ci può guarire? Una posizione di questo genere rovescia i termini della questione e ci fa uscire dalla logica del clan che si arrocca in difesa dei vari virus che contagiano le nostre esistenze.
Occorre ricominciare a fidarsi, guardare attorno a sé con attenzione e senso della speranza. Si troveranno sicuramente bravi medici e bravi educatori che possono, se non risolvere immediatamente i nostri problemi, prendersi cura delle nostre insicurezze e malattie, avviarci in un percorso in cui siamo protagonisti della nostra rinascita (personale e comunitaria).
In fondo, sul piano del fidarsi, da una parte, e del prendersi cura, dall’altra, medicina ed educazione si toccano. Il medico coscienzioso, come insegnano tanti testimoni, è anche un buon educatore. E viceversa la strada che porta al ristabilimento dell’equilibrio personale di chi soffre un disturbo fisico, mentale e culturale, ha tutti i caratteri del paziente cammino educativo di riappropriazione del senso della realtà.