cuore, credo, Herz, sirt, srce: tutte parole che vengono da un primitiva base comune, “k’rd-”. Un “luogo” nascosto in noi capace non solo di sentire ma anche di pensare
Sarebbe sorpreso il lettore non specialista, se si sentisse dire che l’italiano cuore e il persiano dil sono la stessa parola: eppure, le cose stanno proprio in questi termini, e possiamo seguire con precisione, passo per passo, le trasformazioni che i due termini hanno subito nel corso dei tempi e arrivare (la linguistica storica si prefigge di essere una scienza seria e rigorosa) a una primitiva base comune: k’rd-. A questa stessa base, con una serie di trasformazioni del vocalismo e del consonantismo ben note e documentate, risalgono i termini per “cuore” correntemente usati nelle varie lingue indoeuropee, dal greco kardía all’inglese heart e tedesco Herz, al russo serdce e serbo-croato srce, al lituano širdis, all’armeno sirt, tanto per indicarne alcuni fra i molti.
Questo carattere conservativo che ha portato alla conservazione pressoché unanime di un termine antico è già di per sé indizio dell’importanza che fin dall’antichità viene attribuita a questa parte del corpo: il cuore non è, nell’immaginario collettivo, solo un componente anatomico che presiede alla circolazione del sangue. Il cuore è da sempre percepito come la sede dei sentimenti, buoni e cattivi, della felicità e della preoccupazione, e spesso contende alla mente anche la facoltà del pensiero.
Come scrive Isidoro vescovo di Siviglia (VI-VII secolo), “nel cuore rimane ogni ansia e la motivazione del sapere” (anche noi usiamo espressioni come penso nel mio cuore, e in francese studiare a memoria si dice par cœur, col cuore): addirittura, come ci fa sapere Cicerone, per alcuni il cuore era l’anima (cor ipsum animus videtur, Tusc. I 18), e questo spiega perché oggi in rumeno “cuore” si dice inimă (da anima).
Naturalmente tra tutti i sentimenti che possono avere sede nel cuore quello privilegiato è l’amore: la correlazione fra cuore e amore è ben nota e così largamente diffusa in tutte le letterature da rendere superflua qualunque esemplificazione. Il cuore diventa così l’ambito più intimo e segreto dell’uomo, il punto più recondito e impenetrabile del suo essere: “Dammi un uomo che non sia schiavo della passione, e io lo conserverò nel mio cuore, anzi, nel cuore del mio cuore (in my heart of heart), come faccio con te” (Amleto a Orazio, III, ii, 1950 ss.).
Questo affollarsi di valori rende ragione della fortuna della parola e del numero nelle derivazioni. Innanzitutto citiamo alcuni aggettivi come concorde e discorde: concorde è chi condivide idee, sentimenti e preoccupazioni di un altro, e concordia è l’intesa che collega un gruppo di uomini: non per nulla è diventata una parola chiave del linguaggio politico antico, quando si vagheggia una ideale respublica governata col comune consenso dei cittadini. Discorde e discordia sono l’esatto contrario. Siccome cuore è anche sinonimo di ardimento, in un altro derivato, coraggio (dal latino tardo coraticum, arrivato all’italiano attraverso il provenzale coratge), ha finito per prevalere il significato di capacità di affrontare i pericoli, audacia: inizialmente era solo un sinonimo di cuore (“madonna Isotta v’ama di buon coraggio” leggiamo in un’antica raccolta di novelle, Il Novellino). (Ma corazza ha a che fare col cuoio, non con il cuore!).
Un’altra derivazione interessante è il verbo ricordare che indica il portare dentro di sé traccia degli avvenimenti a cui si è assistito e delle nozioni che si sono apprese (“imprimere nel proprio cuore”). Dal verbo, che in latino è recordor (medio, cosa che indica l’interesse del soggetto nell’azione), è stato tratto il sostantivo ricordo. Accanto a recordor in latino esistono anche memini e reminisci, che si riconnettono alla radice di mens: in questo caso dunque cuore e mente sono in competizione.
Nelle storia successiva la parola sviluppa anche il valore di “fare ricordare, fare tornare alla mente” (ti ricordo che cosa ho detto), con una serie di ulteriori sviluppi semantici, anche inattesi, nelle lingue che hanno continuato o preso a prestito il termine. In francese antico recorder vale anche “relazionare, testimoniare”. Questo porta, nell’imprestito inglese record, all’uso della parola per indicare la documentazione, grafica (“scheda, documento, verbale”) e sonora (“registrazione, incisione”), o l’exploit sportivo eccezionale degno di essere ricordato.
C’è ancora un altro antichissimo termine indoeuropeo che merita di essere citato, k’red-dhē-, composto dalla parola che conosciamo per “cuore” e da una radice verbale che significa “fare, porre”. Si tratta di una forma che è rimasta solamente in alcune aree marginali e conservative del mondo indoeuropeo: l’India (in sanscrito śraddhā-), Roma (credo) e il mondo celtico (irlandese cretim). Il parlante non è più in grado di percepire l’originaria connessione tra credo e cuore, ma la scienza linguistica ci permette di rappresentare un’età remota in cui il credere è il disporre il proprio cuore, e dunque l’affidare sé stessi a qualcosa o a qualcuno.