Quando il mangiare diventa un incubo che, alla fine, uccide. L’azione vitale per eccellenza – cibarsi, nutrirsi – qualcosa che reca con sé l’idea del piacere, del gusto, della famiglia, dell’amicizia, si colora delle tinte della morte e dell’angoscia. È la storia di Lorenzo Seminatore che, a vent’anni, muore ucciso dall’anoressia, nel silenzio della sua camera.
Non è stata una cosa improvvisa. Per Lorenzo e la sua famiglia gli incubi cominciano a quattordici anni, quando si iscrive alla scuola superiore. La madre racconta di un ragazzino diligente, un po’ perfezionista, che all’improvviso smette di mangiare. “Da quel momento, conclude, la situazione è inesorabilmente peggiorata”. Lorenzo va prima da uno specialista, poi da un altro e da un altro ancora: fino a quando a un neuropsichiatra confessa: “Non mangio, perché so che così prima o poi muoio. Non ho il coraggio di salire le scale fino al terzo piano per buttarmi”.
Quando pronuncia questa sentenza allucinante il ragazzo ha sedici anni e i genitori, che ancora godono della patria potestà, decidono di ricoverarlo in una clinica specializzata. Il ragazzo pare riprendersi. Ricomincia a studiare, a sorridere. I professori, per aiutarlo, si recavano da lui, fino a quando, ingrassato di venti chili, torna sui banchi di scuola e ricomincia a frequentare gli amici. Ma, quando all’orizzonte si profilano gli esami di maturità, si ridestano i fantasmi peggiori che hanno il sopravvento su di lui quando si iscrive all’università. Racconta molto di se stesso su YouTube, dove apre un canale dal nome significativo: Once the Killer. Canta, al ritmo del rap, canzoni profonde e malinconiche quali per esempio “Sono cresciuto con la ‘paura’ di morire giovane”, “forse ho dato troppo e tutto troppo presto”.
Ma la malattia comincia ad avere la meglio e Lorenzo smette di curarsi. Papà e mamma si disperano impotenti perché il figlio maggiorenne può decidere da solo della sua vita e della sua morte.
I genitori oggi denunciano la mancanza di sostegno, di informazioni e anche la presenza di una cultura per cui se non c’è la febbre, non c’è il tumore, non c’è una malattia organica visibile, spesso si liquida il malato con un “sono tutte fissazioni” fino a quando la malattia non porta chi ami sull’orlo del baratro. E poi lo fa cadere giù. “Molte famiglie – dicono Francesca e Fabio, i genitori di Lorenzo – stanno vivendo lo stesso calvario che abbiamo affrontato noi. Questi ragazzi devono essere curati e non tutti possono permettersi centri privati. Le istituzioni devono muoversi: prima con la prevenzione nelle scuole, poi con investimenti”.
Ma soprattutto bisognerebbe sconfiggere l’anoressia nel campo dove poi mette radici, quello più fertile per questa zizzania della vita: il campo dell’accettazione di sé e dei cambiamenti. Con l’anoressia spesso la mente rifiuta l’immagine del proprio corpo, ed essere adolescenti nella nostra “società dell’immagine” significa automaticamente essere in una situazione estremamente fragile e precaria. Perché se un giovane non esiste per gli amici, non esiste per nulla, non esiste per davvero. E arriva a rifiutare il cibo e a vedersi grasso anche quando l’anoressia lo ha reso un’ombra sull’orlo del baratro. Lorenzo e i suoi genitori ci sfidano con le loro domande difficili: come nutrire i giovani di vita, di sfide difficili, di ideali per cui combattere? Coltivando passioni e conoscenze, come quei giovani che eravamo noi. Con il fuoco della vita dentro che bruciava ed ha impedito all’anoressia di attecchire.