Quando si scopre che il sangue del proprio sangue ha giurato obbedienza e servizio alle persone che hanno ucciso un proprio caro, sembra di aver raggiunto il vertice del tradimento e del dolore. È quanto ha espresso Rosaria Costa, vedova di Vito Schifani, agente della scorta di Giovanni Falcone ucciso da Cosa nostra nella strage di Capaci, quando ha saputo ieri che il fratello Giuseppe era stato arrestato, colpevole, fra le altre cose, di riscossione del pizzo, tenere la cassa dell’associazione mafiosa e assistere le famiglie dei detenuti: “Mio fratello è un Caino, per me è come se fosse morto ieri”. Ne abbiamo parlato con Dario Cirrincione, giornalista e scrittore, autore del libro Figli dei boss, vite in cerca di verità e riscatto (San Paolo) in cui racconta le storie drammatiche dei figli e dei parenti dei boss della criminalità.
Ci può dire come è nata l’idea del suo libro Figli dei boss, vite in cerca di verità e riscatto? Normalmente una volta che “il personaggio” criminale viene arrestato o condannato ci dimentichiamo di lui. È chiuso in galera e tanto ci basta. Invece intorno a lui c’è un mondo, i familiari, i figli, gli amici.
L’Italia è il paese dei figli di… qualcuno. Molti dei giornalisti famosi sono figli di giornalisti, lo stesso dicasi per i medici, gli avvocati, i notai, i politici, eccetera. E quindi mi sono domandato se i figli dei boss delle mafie seguissero in qualche modo la regola. Per fortuna non è così e ho raccolto e raccontato una decina di storie belle ed emozionanti di giovani che hanno scelto, o almeno hanno provato a scegliere, altre strade alternative a quelle criminali. Ho deciso di approfondire solo la sfera familiare dei “figli” per conoscere davvero chi sono e come vivono e per far conoscere a tutti che dietro storie di apparente felicità ci sono solitudine, pregiudizi e stereotipi. Più che da curiosità sono stato mosso da un desiderio di conoscenza.
Quando si parla di questi figli o mogli o fratelli, si cerca l’aspetto più superficiale: ricordiamo i tentativi di intervista alla figlia di Totò Riina, quasi dei processi in mezzo alla strada. Lei invece quale preoccupazione ha avuto e come si è mosso con queste persone?
Ho agito da cronista vecchia maniera. Sono entrato in contatto con loro andando a incontrarli personalmente anche a casa loro. Non ho iniziato a porgere le mie domande dal primo incontro, ma ho voluto che ci conoscessimo reciprocamente in maniera più approfondita prima di sederci al tavolo per registrare l’intervista. In quel periodo vivevo tra Roma e Milano, quindi era anche complicato muovermi. In particolar modo per raggiungere la Calabria in modalità low-cost. Il rapporto di fiducia che si è creato tra me e gli intervistati, il premio Giancarlo Siani e le belle parole che hanno speso i magistrati in prima linea nel contrasto alla criminalità organizzata partecipando alle presentazioni del libro, sono il miglior riconoscimento possibile.
Emanuele Schifani, figlio di Vito Schifani, agente di scorta di Giovanni Falcone morto nella strage di Capaci, nipote di Giuseppe Costa ha detto riferendosi a lui che “Purtroppo, chi rimane lì, o muore o diventa come loro…”. Aggiungendo: “Per combattere bisogna allontanarsi, riorganizzarsi e tornare più forti”. Che ne pensa?
Non vorrei entrare nel merito della notizia di cronaca né nelle parole del capitano Schifani relative all’arresto dello zio. Posso però dire che, avendo seguito alcuni percorsi di figli di boss che hanno vissuto un periodo lontano dalla propria terra d’origine, respirare aria nuova e diversa non può che far bene per conoscere altre realtà. Dimostrare che un’altra vita è possibile è determinante. Ma ancora più determinante è creare le condizioni affinché chi va via possa tornare se lo desidera. Non tutti coloro che rimangono sono complici.
I figli di questi personaggi criminali (pensiamo alla serie televisiva Gomorra al cui proposito le chiederei un parere) riteniamo siano educati automaticamente a diventare dei criminali: è così che succede? Ci può raccontare qualche esempio di figli di boss che invece non erano al corrente di quello che faceva il padre o sono riusciti a distanziarsene? Penso al caso di Antonio Piccirillo che ha pubblicamente sconfessato il padre.
I figli dei boss sono molto mitizzati e subito si pensa ai celebri “figli di Don Vito Corleone” del film Il Padrino o a “Genny Savastano” della serie tv Gomorra. Non c’è voglia di raccontare le storie vere dei ragazzi e delle ragazze, ma c’è solo voglia di sapere cosa i figli sanno dei loro padri e quanto abbiano preso le distanze dal mondo criminale. Molti di quelli che ho cercato d’intervistare mi hanno respinto dicendomi “A lei, come a tutti, interessa solo mio padre” e ho faticato per spiegare loro che non era così. I figli dei boss che rimangono onesti, è bene sottolinearlo, non accettano nessuna educazione criminale. Anzi cercano di sfuggire da essa. Limitatamente alla mia esperienza posso dire che non è la famiglia d’origine a trasmettere un’educazione criminale, ma la società in cui essi vivono. Ci sono ragazzi e ragazze che in età adolescenziale sono “prìncipi ereditari” che hanno l’autista perché c’è chi si offre di portarli in giro; mangiano e bevono gratis perché c’è chi si offre di pagare al posto loro. Ciò li rende “boss di diritto” anche se loro non vogliono.
Quindi c’è un contesto preciso in cui crescono?
In molti casi i figli scoprono che il padre o la madre sono boss quasi per caso. O perché lo leggono sui giornali, o per il via vai dei parenti in seguito all’arresto, o per qualche confidenza tra compagni di scuola. I ragazzi che ho intervistato io hanno cercato e cercano di vivere una vita normale nella legalità: il modo migliore per prendere le distanze dal mondo criminale pur tuttavia senza allontanarsi dal padre o dalla madre in quanto genitori.
Chi si distanzia dai percorsi criminali dei familiari, che possibilità ha di avere una vita diversa? Lo Stato fa qualcosa per queste persone? Ci sono associazioni ad esempio a Napoli nel rione Sanità dove con l’aiuto di sacerdoti e non solo si sostengono parecchi ragazzi che facevano parte della criminalità per tenerli lontani, dando loro una possibilità di vita sana. Ci può fare qualche esempio?
Sulla carta ha le stesse possibilità di chiunque altro. Vivono nell’anonimato o in località protetta soltanto coloro che rientrano in un programma di protezione, ma sono casi rarissimi. I figli dei boss “onesti” vivono alla luce del sole e ho voluto dimostrarlo pubblicando nel libro le interviste con il loro nome e cognome per esteso, senza inventare personaggi di fantasia. Il passo più concreto che sta facendo lo Stato è sicuramente il progetto “Liberi di scegliere” portato avanti dal presidente del Tribunale per i minorenni di Reggio Calabria Roberto Di Bella e supportato da tanti volontari e associazioni. Ho intervistato il dottor Di Bella due volte: la prima al telefono e la seconda nel suo studio in tribunale a Reggio. Lì, come ho scritto nel libro, ho avuto la consapevolezza di incontrare un uomo che ha scritto un pezzo di storia d’Italia.
“Verità e riscatto” sono le parole chiave che ha scelto. Sono parole valide per tutti, non solo per questi casi, non crede? La società di oggi tende a creare falsi miti, a farci credere che la cosa importante sia avere successo, fare la bella vita, i soldi, in qualunque modo. Per lei che significato hanno queste parole?
La parola “verità” è troppo spesso sottovalutata e invece è di una bellezza sconvolgente. La ricerca della verità dovrebbe muovere ogni nostro singolo passo così come muove i bambini che iniziano a scoprire il mondo. La ricerca di riscatto, invece, è insita in ognuno di noi. La parte più difficile sta nel trovare il coraggio di mettersi in gioco per dimostrare se valiamo ciò che pensiamo di essere.
(Paolo Vites)