Gioia Tauro, 14 febbraio 2020. Il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, presenta, in un’area simbolo delle potenzialità tradite del Mezzogiorno, il Piano per il Sud, al quale ha lavorato negli ultimi mesi il ministro Giuseppe Provenzano. Beh, che c’è di nuovo? Lo ha fatto anche Renzi quando era premier con il Masterplan, che poi non riuscì a condurre, perché intanto puntò tutto sul referendum costituzionale. E sappiamo come finì. E a chi gli fece seguito, ossia Paolo Gentiloni, non andò molto meglio, perché nonostante l’impegno di Claudio De Vincenti, allora ministro per la Coesione, le politiche per il Meridione, facendo la tara per gli incentivi di Resto al Sud, si ridussero all’intuizione delle Zone economiche speciali nel Sud. In realtà, ancora ferme al palo.
Eppure qualcosa di nuovo c’è, in questo “ritorno al Sud”. Perché stavolta ci sono di mezzo le pinne delle Sardine. A ben vedere, ossia liberandosi dalle lenti distorte del sarcasmo di alcuni post su Facebook, Mattia Sartori e i suoi hanno svolto un ruolo non trascurabile: non solo nel rilancio del tema Mezzogiorno nell’agenda setting del governo, ma nello sdoganamento della parola Sud dall’orizzonte politico e dal lessico dei grandi media. Operazione mai così efficace, da vent’anni a questa parte, periodo del lunghissimo attraversamento dell’opacità entro cui è stato recluso ogni riferimento al Mezzogiorno. Almeno da quando Giorgio Bocca, nel lontano 1992, pubblicò L’inferno. Profondo sud, male oscuro.
Ed è forse questa, al momento, la novità “più nuova”, se così si può dire, nell’ambito del dibattito pubblico nazionale. Le Sardine hanno sancito la fine della “Questione settentrionale”, ossia dell’idea che per rimettere il Paese sui binari di una crescita apprezzabile fosse necessario e sufficiente puntare sulla locomotiva del Nord.
Vale la pena approfondire questo aspetto, che riguarda il linguaggio comune, vale a dire quanto scorre nella mentalità diffusa della gente, ben al di là dei confini della narrazione corrente. Qualcosa di “carsico” e subliminale, ma profondo e notevole, che potrebbe incidere sulla coscienza del Paese. Un risultato che segna un’inversione di tendenza, in sé è più importante dei provvedimenti e delle misure messe in campo dal Governo.
Senza la nascita del movimento pochi mesi fa e la successiva tenuta nella prima vera battaglia sul campo, ossia le elezioni in Emilia-Romagna, chi si sarebbe assunto l’onere di perorare la causa dello sviluppo del Mezzogiorno, come hanno fatto ultimamente le Sardine?
Il merito di quel movimento, infatti, va ben al di là delle specifiche ricette che ha provato a indicare. Ad esempio, la formula Erasmus per favorire lo scambio tra i giovani del Nord e del Sud, su cui si è fatta ironia specialmente nei social. Proposta giudicata ingenua e improvvida troppo in fretta e in maniera superficiale. Perché è vero che i problemi patiti dal Mezzogiorno sono tanto radicati che certo non bastano a risolverli cento Erasmus, ma quello che conta, al di là delle ricette, è aver imposto la “ricucitura” di una ferita che la politica si era incaricata di aprire, rendendo ancora più distanti le due metà di un Paese che, come diceva Giorgio Ruffolo, è “troppo lungo” di suo. Fermato Salvini alle porte dell’Emilia-Romagna, le Sardine hanno anche provato – con successo – a ribaltare il disimpegno nei riguardi di un Mezzogiorno, cavalcato da tutti i partiti, assieme al convincimento che il resto dell’Italia del Sud può (e deve) fare a meno.
Grazie alle Sardine, invece, forse ha inizio il ritiro, dal lessico caro agli opinion maker, della polemica anti-meridionalista, rivolta ai terroni pressappochisti e superficiali, inclini a clientele e assistenzialismo.
Sartori e i suoi hanno affermato addirittura a chiare lettere che c’è qualcosa che i giovani del Nord possono e debbono imparare, se solo decidono di prendere un “treno che all’incontrario va”. Grazie a loro, forse è arrivato il momento di archiviare il convincimento da sempre diffuso che, per gli studenti del Sud, non ci sia altra prospettiva che “emigrare” come i loro nonni. E forse è giunto alla fine anche il serial della “Gomorreide”, in più versioni riproposto. La Napoli che per tanti opinionisti è stata per anni una porta spalancata sull’inferno dei viventi, oggi viceversa è, a detta di Sartori, “una città di cui un giovane emiliano farebbe bene a imparare la lingua”: la lingua, si badi bene, non il dialetto, quintessenza della sua cultura.
Il merito delle Sardine è in sintesi questo: aver cominciato a filare la tela di ragno con cui ricucire lo strappo consumato per vent’anni alla coesione nazionale. E aver imposto al dibattito pubblico l’apertura di una pagina nuova – un nuovo racconto – dopo la lacerazione subita dal Paese sulla linea di faglia che da Roma porta ad Ancona, a cui sembravamo (o eravamo?) totalmente assuefatti.