Leggere La casa degli sguardi di Daniele Mencarelli è molto più che un’esperienza letteraria. È un viaggio nell’animo di un uomo, segnato da un profondo disagio esistenziale, che spalancando lo sguardo su un luogo di sofferenza estrema, l’Ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma, trova la forza per uscire dallo stato di prostrazione in cui si trova.
Seguendo il viaggio di Mencarelli, il lettore non può fare a meno di incamminarsi anche lui in un percorso di riflessione sul senso del suo “passaggio nel mondo” e dei grandi interrogativi che lo segnano: la sofferenza, la fede, il destino… Alla fine del viaggio appare evidente la dinamica che ha salvato il poeta e può salvare anche noi: non distogliere mai lo sguardo da quello che si è chiamati a vivere, per quanto possa essere insostenibile la sofferenza che suscita, e non spegnere mai la domanda di senso che quella sofferenza (e la nostra stessa esistenza) sollecita.
Proprio dal tema dello sguardo, che non a caso dà il titolo al libro, sono partite le riflessioni di Mencarelli durante un incontro organizzato dall’operatore logistico Number1, lo scorso 14 febbraio a Parma. “Per me parlare di sguardo significa parlare di una specie di ‘secondo cognome’, di qualcosa che nasce con me e che dentro l’ospedale del Bambino Gesù ha trovato una straordinaria arena in cui esercitarsi – ha raccontato Mencarelli –. Guardare ha la stessa radice di ‘stare a guardia’, è parente dell’essere sentinella. Esistono persone che sono sentinelle di qualcosa che sta fuori di loro e che loro sentono accadere. Vivono la realtà come se esistesse sempre un accadimento da catturare con uno sguardo mai sazio. È un modo di guardare molto faticoso, perché richiede attenzione, disponibilità, intensità. Significa vivere quello che ci circonda dandogli una rilevanza ben più grande di ciò che viviamo interiormente”.
Un capovolgimento di prospettiva, quello che propone Mencarelli, che oggi suona quasi “eversivo”, perché sposta il centro d’attenzione da se stessi agli altri. “Gli sguardi più dolorosi che abbia mai visto in vita mia – ha spiegato – mi hanno messo in relazione con sentimenti che ho scoperto solo quando mi sono aperto all’incontro dell’altro”.
E da questo incontro – che al Bambino Gesù significa misurarsi con il dolore reale – nasce anche la consapevolezza dell’enorme quantità di dolore “non reale” che produciamo noi, quando ci sfiliamo dal confronto con la realtà. “In quel luogo di sofferenza estrema – ha ricordato Mencarelli – ho capito che ero vittima di un dolore che esisteva solo perché lo producevo io, affogato nella mia mente, perennemente in autoesilio. Il mio sguardo aperto sul dolore reale ha svelato l’inconsistenza del mio”.
Non solo. Lo sguardo aperto sugli altri ha anche reso più autentiche le relazioni dell’autore con i colleghi di lavoro, impiegati come lui nella cooperativa di pulizie che prestava servizio in ospedale. “La grandezza dei lavori umili, per chi arriva da una famiglia medio-borghese come la mia, è che ti fanno entrare in contatto con persone molto diverse da te, che vivono storie di povertà ed emarginazione conosciute solo per sentito dire – ha ricordato lo scrittore –. Condividere situazioni di fatica e di rischio, imparare ad affidarsi a chi lavora con te, crea una vicinanza che va oltre l’esperienza lavorativa”.
Folgorante, sempre a proposito di relazioni umane, la riflessione finale dell’autore sul rapporto con la madre. Una figura che nel libro appare spesso, ma parla poco. Una presenza silenziosa, ma potente, capace di restare in attesa per tutto il tempo che è servito al figlio per uscire dalla sua dipendenza dall’alcol.
“Mia madre ha sentito che la mia vita doveva passare dentro quel tempo: ha intuito che serviva proprio quello per arrivare al punto in cui mi trovo ora. Ha dato modo al tempo di parlare. Ha anche avuto la capacità e la forza di andare contro chi voleva delle risposte subito”.
Una lezione preziosa per rimarcare che il “tempo giusto”, molto spesso, non è quello che decidiamo noi.