C’è una data che va segnata fin da adesso nel calendario della politica italiana. È martedì 3 marzo. Quel giorno il presidente del Consiglio Conte andrà alle Camere per rendere delle “dichiarazioni”: così ha deciso la conferenza dei capigruppo. Al termine del suo discorso, seguirà un dibattito e infine un voto dell’Aula: tecnicamente non è un voto di fiducia, ma in pratica è come se lo fosse. Lì si capirà finalmente il gioco che sta facendo Matteo Renzi. Il tiro alla fune di questi mesi avrà qualcuno che vince e qualcuno che perde.
Sembrava che il rottamatore avesse fatto un passo indietro quando ha accettato di lasciare andare – almeno per ora – la riforma della prescrizione e ha votato la fiducia sulla riforma delle intercettazioni. Ma questo non ha voluto dire un allineamento di Renzi dietro l’“avvocato del popolo” e il suo asse con il Pd di Nicola Zingaretti. Subito dopo, infatti, il senatore semplice di Rignano ha posto sul tappeto una serie di ulteriori condizioni pesantissime: la cancellazione (o quantomeno una profonda revisione) del reddito di cittadinanza, la riforma della prescrizione, lo sblocco dei cantieri per le opere pubbliche, una nuova riforma costituzionale con l’introduzione del “sindaco d’Italia”, ovvero l’elezione diretta del presidente del Consiglio.
Sono altrettanti ostacoli per fare cadere il governo o pilastri sui quali rilanciarne l’azione? Come sempre, Renzi si muove nell’ambiguità. Tutti questi quattro punti potrebbero tranquillamente figurare nel programma elettorale del centrodestra, soprattutto il “sindaco d’Italia” che Silvio Berlusconi aveva fatto approvare nella riforma del 2005 poi bocciata dal successivo referendum confermativo. Ma è molto difficile che Renzi in questa fase possa trovare una sponda in Forza Italia. E anche gli abboccamenti con Matteo Salvini sembrano soprattutto finalizzati a intorbidire le acque. Questa è dunque l’ennesima puntata del duello personale che Renzi ha ingaggiato con Conte per la leadership di un costituendo polo moderato all’interno del centrosinistra. La prossima settimana i due si vedranno a Palazzo Chigi e si avrà un primo assaggio dello stato dei loro rapporti.
Ma il 3 marzo anche il premier dovrà uscire allo scoperto. Finora Conte si è barcamenato tra il sogno di diventare un vero leader politico e la dura realtà di tenere assieme una maggioranza posticcia. La necessità di mediare tra le varie anime del governo, spesso inconciliabili, lo ha indotto a usare mezze parole a mezza voce. Stavolta non dovrà avere mezze misure e davanti al Parlamento il presidente del Consiglio dovrà finalmente chiarire se è riuscito a trovare punti di intesa. Il reddito di cittadinanza resta o cambia? Sulla giustizia è tutto definitivamente deciso o il dossier si potrà riaprire? E sull’assetto istituzionale cosa c’è da dire, visto che a fine marzo ci sarà il referendum sul taglio dei parlamentari e bisognerà poi scrivere una nuova legge elettorale?
Su tutto, resta un ulteriore tema di incertezza, cioè le intenzioni del Quirinale. Finora dal Colle avevano fatto sapere che la priorità era garantire la durata del governo. Una linea che aveva indotto Mattarella a benedire il passaggio dal gialloverde al giallorosso. Ma forse adesso anche il capo dello Stato si sta convertendo all’idea che non è interesse di nessuno prolungare all’infinito il gioco al logoramento. Dal Quirinale sono cominciate a filtrare voci che smentiscono l’esistenza di un impedimento al voto anticipato a causa del referendum: basterebbe farlo slittare con un decreto oppure, con un altro decreto, ridisegnare i collegi elettorali con la legge in vigore, e si potrebbe anticipare le politiche già a luglio. Al tempo stesso, Mattarella non vedrebbe di buon occhio il terzo cambio di maggioranza in due anni (2018–2020) con l’ingresso di un’eterogenea pattuglia di “responsabili” al posto dei renziani. Renzi, dunque, questa volta sembra non avere sponde. Il braccio di ferro sarà tutto tra lui e “Giuseppi”.