Chiunque è cresciuto con genitori che avevano vissuto durante la Seconda guerra mondiale, ricorderà le continue lamentele quando lasciavamo parte del cibo nel piatto: “Finisci tutto! Si vede che non hai fatto la guerra, si vede che non hai sofferto la fame”. Era vero, verissimo. Non è mai successo nella storia secolare d’Europa (a parte la guerra nella ex Jugoslavia) che si vivessero 75 anni di pace come successo a tutti noi, nati nel dopoguerra. Per quelli come il sottoscritto, nati e cresciuti negli anni 60, si trattava poi di vivere nel cosiddetto “boom economico”: cibo e altre delizie non mancavano mai, inutili, ad esempio le merendine, erano fin troppo abbondanti. Oltre a tutto il resto: il primo televisore, i giocattoli a tonnellate, il cinema. Le lamentele dei genitori erano una noia: che ne sapevamo noi della fame e perché dovevano sempre ricordarcelo? Affari loro (i bambini sanno essere altamente crudeli). Negli ultimi decenni poi la disponibilità di cibo è talmente aumentata, almeno nei paesi ricchi, che si cerca di ridurlo tanti sono i bambini obesi.
In questi giorni, causa l’allarme coronavirus, abbiamo assistito invece alla corsa ad accapararsi il cibo nei supermercati e tutti siamo rimasti scioccati. Abbiamo preso in giro questa folle corsa, poi magari, tanto per non rischiare, anche noi siamo andati a fare una spesa eccezionale. C’è una foto che gira sulla Rete in cui si vede, in mezzo a carrelli pieni di ogni qualità di pasta e scatolame, in coda in un supermercato un tizio con il carrello pieno di casse di birra. Sia mai che finisca: poi con la chiusura dei bar alle 18, stasera cosa bevo?
Non dovremmo però stupirci così tanto. Sono istinti primari profondi sedimentati da secoli. La storia d’Europa è segnata dalle guerre e dalle carestie. Un mio amico mi ha detto che la madre gli ha chiesto di comprare dieci chili di pasta perché ricorda ancora oggi la fame da 12enne nel 1943-45. La paura della fame è una brutta cosa e allora viene da chiedersi se siamo noi, cresciuti nel benessere, gli anormali, non quelli che hanno paura di rimanere senza cibo. Noi, oggi troppo facilmente spaventati, deboli e fragili perché abbiamo il terrore che il nostro benessere finisca da un giorno all’altro. Ci venga tolto quello che consideriamo un privilegio: l’abbondanza. Quando poi in Italia, da prima del coronavirus, c’erano 5 milioni di persone sotto la soglia di povertà. Ma chi ci pensava? Solo associazioni benemerite come il Banco Alimentare che anche in questi giorni di allarme non cessa le sue attività. E allora? Siamo messi alla prova e reagiamo come “bestie”.
Come ha ben scritto il professor Massimo Recalcati su Repubblica nei giorni scorsi, quello che più spaventa di questa corsa al cibo, è l’impatto individualistico. Ognuno pensi per sé: “L’euforia provocata dal sentirsi fare parte di un corpo unico si trasforma traumaticamente nel suo contrario: ogni individuo cerca di salvare se stesso vivendo il proprio simile non più, come accade nella massa compatta, come prolungamento della propria identità, ma come una sua minaccia mortale. Il panico rende ciechi: la massa che si sgretola fuggendo il più lontano possibile dalla fonte della minaccia tende sempre ad alimentare caos e distruzione”.
In ogni caso, penso che stasera farò scorta di merendine, quelle che mangiavo da bambino… E una cassa di birra visto che non c’è un bar aperto. Accidenti.