È uscito il nuovo album del sessantacinquenne chitarrista Pat Metheny, in cui si intersecano scenari differenti e musiche di tutto il mondo. E d’altronde cosa ci si poteva aspettare da una carriera cinquantennale, 20 Grammy Awards in dodici categorie diverse, decine di album con diverse band e da solista, colonne sonore, collaborazioni a 360 gradi e tutto quello che un musicista di così ampie vedute avrebbe voluto fare, ed in effetti ha fatto?
Da un po’ di anni il grande chitarrista del Missouri sta girando primariamente con alcuni giovani musicisti – fra l’altro tutti ricordano di aver deciso di studiare musica grazie soprattutto alla musica di Pat – presenti come core band anche in questo nuovo album: il messicano Antonio Sanchez alla batteria, l’australiana Linda May Han Oh al contrabbasso ed il pianista britannico, per la precisione gallese, Gwilym Simcock.
Già la composizione della band ci fa intravedere l’ampiezza del progetto dell’artista, cosa non nuova, viste le varie frequentazioni di luoghi, generi e persone durante tutto l’arco della lunghissima e ricchissima carriera, che sarebbe molto lungo ricordare, anche solo in parte.
In una bella intervista con Nick The Nightfly a Radio Montecarlo (reperibile e molto interessante per chi volesse documentarsi) ed anche in quella su Rolling Stone viene spiegato il metodo di lavoro di questo album, desunto da una serie di colloqui con una leggenda del jazz, l’immenso contrabbassista Ron Carter.
Metheny chiese a Carter perché Miles Davis faceva suonare dal vivo alle sue band sempre gli stessi pezzi e solo in studio di registrazione lavorava su pezzi nuovi. La risposta è stata pressappoco: per far raggiungere sempre più interplay sulla musica conosciuta e riversare maggior freschezza sulle composizioni nuove. Metheny ha provato a fare così, aggiungendo poi delle partiture orchestrali.
Il risultato è un affresco ampio e composito, un punto di vista – come lui stesso dice nelle interviste – molto americano (ricordiamo che viene dal Missouri, il centro del centro dell’America, cui probabilmente richiama anche la copertina dell’album), musica che compie una sorta di giro del mondo, riannodando un po’ dei fili sparsi in cinquant’anni ed in qualche modo riportandoli a casa. From This Place sono partito, e in questo posto ritorno. Ritengo necessaria una pur breve disamina pezzo per pezzo e quindi in carrozza, si parte!
America Undefined è il brano di apertura, 13 minuti di viaggio molto asimmetrico e diagonale, forse per questo non definito come il titolo suggerisce, una sorta di caleidoscopio di influenze, ritmi asimmetrici, arrangiamenti. Una serie di pagine girate, di nuovi scenari che si aprono, intorno agli 8 minuti il cambio più consistente, intorno al cuore pulsante del contrabbasso, poi a 11:30 un altro ancora. È uno strano viaggio, quasi una colonna sonora senza film, anzi in cui il film è l’ascoltatore, teso a percepire, ad esempio, nella coda del brano, fra i cluster orchestrali un banjo lontano, che riporta a quell’America scandagliata qui in molte delle sue possibili trasformazioni. Affresco possente, che richiede un ascolto sicuramente impegnativo e non distratto. Wide and Far ci invita ad un viaggio un filo più breve, si fa per dire, di otto minuti e mezzo, riportandoci in qualche modo al Pat Metheny Group della fine degli anni ’80, (Still Life (Talking), 1987 ma anche Letter From Home, 1989) dove la spinta dell’influsso brasiliano e sudamericano si era fatta sentire possente. Con la traccia 3, You Are, sembra fermarsi tutto. Un brano haunting, si potrebbe tradurre ‘stregante’, o forse meglio ipnotico, che per esempio nel mio caso, mi ha costretto a trascriverlo e studiarlo per entrarci un po’ di più. Il tema affidato alla chitarra di Pat emerge dopo più di un minuto e si appoggia su un ostinato di 9 misure, basato su 3 sole note. Anche la successione degli accordi rimane sostanzialmente la stessa per tutto il brano, le stesse 9 misure che si ripetono mentre intanto si sviluppa un unico, immenso arco dinamico, da pianissimo a fortissimo con tutte le ‘f’ possibili per poi riscendere e placarsi. Possiamo dirlo, musica sentita raramente, sorta di lentissima Ciaccona (grazie Lorenzo Definti) che avvolge e poi rilascia. Forse a questo si riferisce il tornado ritratto nella foto di copertina. Assolutamente unico. Ma procediamo: Same River elabora a mio avviso il Pat inizio anni ’80, tanto che inaspettatamente per il suo assolo rispunta il suono che ha praticamente brevettato, quel guitar synth che era uno dei suoi marchi di fabbrica. Non solo ma nel tema finale, un accenno di Coral sitar guitar riporta a Last Train Home e a quel tema immortale. Un tre quarti largo in minore che ci fa cominciare a notare una forte presenza del tempo ternario in queste composizioni. E siamo alla traccia 5 di 10.
Pathmaker fa intravedere l’ennesima ambientazione in tre quarti (per la verità molto sporcato da altre cellule ritmiche), ma soprattutto il lato e il fraseggio più jazz del nostro, che lascia qui molto spazio al pianista Gwylim Simcock, assolutamente all’altezza, a mio avviso del suo compito. Delicato e al tempo stesso strepitoso il solo di batteria di Antonio Sanchez dopo il pezzo si conclude su un finale perentorio, che però lascia spazio a quasi un altro minuto di coda. Sbaglierò, e nel caso in cui non sbagliassi, non riesco a capirne il motivo, ma a me questa coda pare una citazione di Fix You dei Coldplay. Forse un giorno lo scopriremo. Comunque sia siamo più o meno a metà del viaggio. The Past in Us – è una ballad di una intensità unica e di una poesia inimitabile. Viene da pensare che il ‘noi’ a cui si riferisce il titolo siano Pat e Lyle Mays, il pianista che è stato praticamente una cosa sola con Pat per lunghi anni, recentemente scomparso e da qualche tempo lontano dalle scene. L’armonica di Gregoire Maret si aggiunge a quartetto e orchestra, dando una ulteriore pennellata di poesia. Nell’ascolto ci si accorge che è sì una ballad, ma anche essa costruita su un tempo ternario, lentissimo e malinconico valzer, sorta di moderna passacaglia, fulcro e arrivo della memoria. Appena inizia Everything Explained il pensiero è immediato: un altro pezzo in tre! Qui però ci spostiamo verso il Messico, visto come attraverso una lente, un filtro sporcato da altre influenze, la pentatonica blues che si infila qua e là ed alcuni accenni di Song For Bilbao che ci riporta alla memoria il celeberrimo, immancabile album live Travels (1983). Un inizio da barocco veneziano introduce l’unico brano con una parte vocale, interpretata da Me’shell Ndeceogello. La poesia della title track From This Place non è inferiore a certi brani lenti del passato, come Mas Alla affidata alla voce dell’argentino Pedro Aznar, o altri preziosissimi lenti come The Bat part 2 presente nell’album capolavoro del 1982, Offramp. Ah, dimenticavo, anche questa intensa slow ballad è in tre, sì, anch’essa. Dal ritmo in tre quarti si esce con la cavalcata “Last-Train-Home-style” di Sixty-Six, riferimento forse più alla strada che spacca gli Stati Uniti da est a ovest che non all’età di Lyle Mays, al quale potrebbe essere una dedica. In ogni caso un viaggio ricco di pieni e vuoti, di piani e forti, di jazz ed orchestra, che introduce la calma pacata del brano conclusivo, Love May Take A While, degna conclusione di un album a mio avviso pieno di musica intensa, stratificata e bella.
Potrebbe sembrare il mio il racconto di un innamorato, pronto a dire qualsiasi cosa dell’amata. In realtà devo confessare di aver amato molto le produzioni di Metheny per un certo periodo, e molto meno negli ultimi tempi. Mi pareva una musica sempre altissima, ma un po’ troppo cerebrale, avvitata dentro strutture e stili che mi colpivano meno che in passato. Con questo album, che ho ascoltato senza troppo afflato iniziale, ma anche senza pregiudizi, devo dire di aver avuto nei primi ascolti l’impressione di grande musica. Forse ci vorrà ancora un po’ di tempo per rendermi conto di altre cose, intanto ho provato a fissare le prime idee intorno a questo album monumentale ed intimamente americano.
Buon ascolto!!