Ora che è stata finalmente presa una decisione drastica sull’emergenza coronavirus dalle autorità politiche e sanitarie del Paese, posso confessare di aver provato in questi giorni un certo fastidio verso ogni tentativo di “indorare la pillola”. La situazione era ed è terribilmente seria, e ho trovato fuori luogo le polemiche di chi chiedeva strategie comunicative rassicuranti.
Sinceramente non considero interessanti le teorie sugli effetti più o meno positivi che l’epidemia starebbe annunciando per il prossimo futuro né quelle sui traumi causati dalla chiusura delle scuole, la crisi della socialità o le previsioni se il virus aiuti i globalisti o i no-vax.
In realtà più ci avviciniamo al picco del numero delle infezioni, più avvertiamo la vertigine di una condizione di pericolo e di assoluta incertezza. Quello che saremo “dopo”, quando tutto finirà, dipenderà esclusivamente da come e da quando saremo riusciti a contenere la diffusione del virus, prima di trovare vaccini e antidoti. Non riesco ad appassionarmi al dibattito su quante cose si possono fare con il telelavoro, perché incomincio ad essere seriamente preoccupato per quello che può succedere tra qualche giorno per la conquista dell’ultimo posto in rianimazione disponibile.
Il compito principale della politica – che non può essere demandato alla scienza — è in questo momento la gestione dell’emergenza. Tradotto in termini più chiari, spetta a chi ci governa fare scelte precise e dolorose, e indicare le priorità da assumere, come ad esempio chi proteggere in una situazione ancora per molti aspetti imprevedibile. Queste decisioni sono difficili, perché sappiamo che non abbiamo a disposizione tutto i mezzi necessari per far fronte all’onda d’urto in arrivo.
Parlare d’altro non solo non rassicura, ma causa facili illusioni e provoca una grave perdita di tempo.
Per certi aspetti l’arrivo del virus in Lombardia, la Regione con il miglior sistema sanitario del paese, ci aveva dato il tempo – tempo ormai del tutto sprecato – di preparare le altre aree ad affrontare seriamente la crisi. Lo sforzo fatto dai cittadini lombardi è servito materialmente a far “vedere” a tutti le difficoltà e a misurare le criticità a cui sarebbe stato necessario prepararsi. Ovviamente nulla è stato fatto e ci si è illusi che in qualche modo il problema fosse circoscritto alle Regioni del Nord.
Questa irresponsabile perdita di tempo è stata condita – per ironia della sorte – anche da una consistente dose di sfottò, che per due settimane hanno innondato i social alla volta di “quelli del Nord”, responsabili sia della diffusione del virus che del fatto di non starsene a casa loro.
Oggi che l’Italia è divisa in due e non sarà più possibile attraversarla, dobbiamo sapere che la questione più delicata riguarda la sottovalutazione con cui il Sud sta affrontando l’emergenza. Come se non si sapesse che la progressione del numero dei contagiati che sta mettendo in crisi la sanità al Nord spazzerebbe via al Sud in qualche giorno le poche strutture pubbliche funzionanti dopo le politiche draconiane di tagli della spesa e di regimi commissariali.
Solo ieri De Luca, il presidente della Regione Campania, palesemente preoccupato, ha diffuso un video di serio allarme, con parole molto dure verso chi non rispetta le regole individuali da seguire. Contemporaneamente Il Mattino ha reso pubblica l’effettiva disponibilità di posti di terapia intensiva in Campania: 272. Per dare un’idea del pericolo basta ricordare che in Lombardia ad oggi sono 2.500 i pazienti ricoverati e circa 400 quelli in terapia intensiva. La capacità attuale in Lombardia è ormai satura e in queste ore pazienti gravi sono in viaggio verso le Regioni limitrofe. Inutile sottolineare che se il virus fosse arrivato prima in Campania saremmo già oggi in una crisi senza precedenti. Ma cosa succederà tra qualche giorno quando toccheremo il picco nel numero dei contagiati? Cosa succederà quando non si troveranno più posti?
Dobbiamo avere la certezza che le istituzioni preposte stanno immaginando gli scenari peggiori. Non arriveranno? Tireremo tutti un sospiro di sollievo.
È gravissimo lo stato di sottovalutazione generale che – questo sì – ha contagiato il Sud, segno della scarsa predisposizione al senso civico e della solita e recidiva abitudine di affidarsi alla “buona sorte”.
Sono decine le notizie di violazione delle elementari regole suggerite dal Governo. La richiesta di evitare inutili assembramenti è stata più volte disattesa. Abbiamo registrato in questi ultimi giorni oltre 300 persone ad un funerale di un morto per coronavirus nel foggiano, centinaia di anziani, tra cui alcuni contagiati, ad un ballo in maschera a Fondi, migliaia di ragazzi assiepati nei baretti della movida napoletana.
Senza contare la quantità di battute, appelli, gif che circolano in queste ore e che inneggiano al “buon umore” come unico vero antidoto al virus.
Coglie perfettamente lo stato d’animo dei suoi conterranei Anna Trieste, una giovanissima giornalista molto amata dai tifosi, perché con ironia e un uso disinvolto della lingua napoletana, interpreta il loro stato d’animo durante le partite del Napoli. Esilaranti le sue battute sulla vita quotidiana nel quartiere di Barra e sulle vessazioni che deve subire il popolo della circumvesuviana, la sovraffollata linea ferroviaria simbolo del pendolarismo partenopeo. Trieste ieri ha scritto: “mi dice, ma perché io devo cambiare le mie abitudini, limitare le mie scelte e confinarmi dentro casa pure se non sto a Lodi o Pavia?”. E lei risponde così: “perché ci sta una sfaccimma di epidemia e se non ti cionchi a casa tra una settimana staremo come a Lodi e Pavia, ma senza i rispettivi ospedali!”.
Non ci sono parole migliori per esprimere il mio pensiero.