Caro direttore,
pare esservi un solo “assembramento” di italiani “responsabili” da autorizzare con urgenza: quello dei membri delle due Camere del Parlamento nazionale. Queste andrebbero convocate senza indugio nelle sedi istituzionali, meglio in seduta comune vista la gravità del momento. La sessione potrebbe tenersi senza problemi a Roma: città perennemente aperta, lontano dai grandi “lager rossi” decretati in una notte da un Governo la cui “responsabilità” è da tempo in forte dubbio. Il dubbio – o sempre di più una totale sfiducia – serpeggia fra i 12 milioni italiani nel Nord di fatto abbandonati a se stessi come dopo l’8 settembre 1943; internati come untori agli occhi del mondo, e ora probabili vittime di una forte recessione, causata dal suicidio geopolitico del Paese.
Davanti a un Parlamento democratico e sovrano, un premier – peraltro non eletto dagli italiani e invece quasi imposto da importanti capi di altri Stati – dovrebbe spiegare tutto dell’emergenza coronavirus nel Paese: anzitutto le decisioni sue e del suo Governo. Dovrebbe parlare con l’intero Consiglio dei ministri al suo fianco. Così sembrerebbe imporre un decreto della Presidenza del Consiglio che limita di fatto diverse libertà costituzionali: non ultima “la libera iniziativa economica” fissata all’articolo 41 come pilastro della Repubblica “fondata sul lavoro”. Ma di drammatica attualità sembra essere anzitutto l’articolo 32, che “tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti”.
Il Governo ha assolto davvero ai suoi doveri costituzionali verso 60 milioni di italiani? Oppure alcune sue decisioni hanno contribuito – almeno colpevolmente – a privare molti cittadini di questi diritti fondamentali? Il tema non può essere facilmente liquidato come lana caprina “antipatriottica”. Per molto meno (il diritto dei migranti africani a essere soccorsi nel Canale di Sicilia e accolti in Italia) l’allora presidente della Corte Costituzionale si scomodò un anno fa per una lunga intervista critica verso agli orientamenti del governo Conte 1.
Le comunicazioni del Conte 2 dovrebbero essere seguite da un opportuno dibattito: meglio se seguito – come raccomanderebbe la prassi democratica – da un conclusivo voto di rinnovo della fiducia da parte dei rappresentanti eletti dagli italiani (meglio se a voto palese e in diretta sulla Rai). I video preregistrati in qualche bunker appartengono all’arsenale politico-comunicativo dei leader di Al Qaida. O venivano prediletti da un premier della Seconda Repubblica che per questo veniva puntualmente sbeffeggiato come incantatore mediatico e pericoloso mago di comunicazione politica fake. Quel premier a riposo controlla tuttora le tv del Paese in condivisione con il cosiddetto “servizio pubblico” della Rai. E i residui parlamentari di Forza Italia sono in questi giorni oggetto di pressioni “responsabili” da parte del capodelegazione Pd al governo, il ministro dei Beni culturali Dario Franceschini. A proposito: la sua Ferrara è risultata esclusa dalla “zona rossa”, come anche la Bologna del presidente regionale rieletto per il Pd, Stefano Bonaccini. Il filo spinato è stato alzato dal governo giallorosso al confine fra Modena e Bologna e poi più a sud fra Forlì-Cesena e Rimini.
Una settimana prima che il cigno nero del virus cominciasse a svolazzare su Codogno, il Parlamento ha deciso di mandare a processo un ex vicepremier di Conte: Matteo Salvini, leader della Lega e ministro degli Interni nel governo M5s-Lega. È accaduto perché la magistratura (la Procura di Siracusa) ha aperto un fascicolo per ipotesi di sequestro di persona contro il ministro in carica: perché le direttive impartite nel legittimo esercizio della sue funzioni avrebbero trattenuto illegalmente per alcuni giorni un centinaio di migranti irregolari a bordo di una nave della Guardia costiera. Le indagini sono iniziate in tempo ultra-reale, hanno contribuito a far cadere il governo pochi giorni dopo e sei mesi dopo Salvini (leader di un partito maggioritario in pressoché tutte le Regioni del Nord e su scala nazionale all’esito delle ultime elezioni europee) si è ritrovato impeached.
Per la verità altri magistrati (a Lodi e Padova) si sono mossi con un paragonabile solerzia nell’emergenza coronavirus: ma non per accertare eventuali responsabilità del governo, quanto dei medici che dal 21 febbraio lottano per circoscrivere il contagio, curare gli infettati gravi, limitare i decessi. L’inquisizione giudiziaria “dovuta” si è indirizzata su quei medici che rischiano la morte, anzi muoiono per salvare le vite degli italiani. Le iniziative sono scattate – per coincidenza – nelle stesse ore in cui il premier ha accusato quei medici (e soprattutto le amministrazioni regionali di Lombardia e Veneto) di essere i veri responsabili dell’epidemia e del caos dilagante. È una questione che forse meriterebbe l’attenzione del Csm, organo di autogoverno della magistratura: totalmente assorbito invece, in questi giorni, dalla lotta intestina all’ultimo sangue per la nomina del procuratore capo di Roma.
Da giorni – negli editoriali “a reti unificate” – circola un mantra, per lo più ellittico e mimetizzato. Riportiamo la versione del direttore del Corriere della Sera nell’edizione di domenica: “Avremo il tempo per valutare se i comportamenti del governo e delle autorità pubbliche siano stati all’altezza della situazione”. Non sorprende la posizione del quotidiano edito dal 1876 al centro di quella che è oggi la “zona rossa” lombarda. Il Corriere di Luigi Albertini difese a oltranza il generale Luigi Cadorna, responsabile della peggior disfatta militare della storia italiana. Nell’autunno del 1917 centinaia di migliaia di soldati italiani persero la vita combattendo o dopo, di fame e malattie, nei lager austroungarici. Milioni di italiani dovettero fuggire dalle loro case in Friuli, perdendo tutti i loro beni e vivendo per un anno da rifugiati affamati. L’Italia fu salvata dalla sconfitta e dalla distruzione socio-economica solo grazie all’aiuto principale degli Stati Uniti.
Nel marzo del 1918 – 102 anni fa – Cadorna era comunque già sotto inchiesta: era stato impeached dal Parlamento 70 giorni dopo lo sfondamento di Caporetto e la perdita dell’intero territorio nazionale a Nordest. Era già stato sostituito al comando supremo 14 giorni dopo l’inizio dell’offensiva austroungarica. L’8 novembre 1917 – quando subentrò Armando Diaz – il caos militare e civile era ancora al culmine: si temeva l’avanzata austriaca in tutta la Pianura padana e ci volle ancora più di un mese per ristabilizzare il fronte sul Grappa e sul Piave. Perfino il capo dello Stato di allora – un monarca sabaudo di tendenze conservatrici – non poté non rendersi conto che anche la sua posizione iniziava a vacillare nella disruption del Paese. Per questo il premier – l’80enne Paolo Boselli, unanimemente considerato uno dei più inetti dell’Italia unita – venne sostituito con Vittorio Emanuele Orlando già tre giorni dopo il drammatico ordine di ritirata dall’Isonzo.
Quel Re non ripeté il “miracolo” un quarto di secolo dopo: cambiò troppo tardi il premier, un avventuriero spuntato quasi dal nulla nel caos italiano seguito alla Grande Guerra e trasformatosi in autocrate sotto lo sguardo tacito di molti poteri nazionali e internazionali (fra cui anche la Chiesa cattolica, come lamenta ancor oggi padre Bartolomeo Sorge). L’Italia fu invasa sia al Sud che al Nord; fu smembrata e distrutta dalla guerra. Mussolini finì la sua parabola a Piazzale Loreto, nel cuore di Milano. La dinastia sabauda fu cacciata dal suo Paese, che cambiò regime. Fra le forze che oggi sostengono il Conte 2 vi sono tuttora quelle che ogni 25 aprile ricordano la “Liberazione” del Paese: la fine di un lungo periodo di “sonno della ragione”, popolato di infiniti deliri presto trasformatisi in incubi.