Piazza affari ha perso ieri l’11,17%, si evoca un nuovo 2008, una catastrofe, ma il mondo è più grande del “cigno nero”. Lo shock coronavirus è esogeno – ci dice Chris Foster, trader e analista di lunga esperienza –, l’andamento dei titoli dipende dalla pochissima visibilità che abbiamo sulle stime degli earnings per il 2020. Le incognite, quelle vere, sono altre. Si chiamano Cina e Stati Uniti. “Se dovessi scommettere su chi esce meglio da questa crisi, punterei sulla Cina” spiega l’analista. Che confessa di essere assai più preoccupato per le elezioni americane di novembre.
Foster, siamo al 2008? O piuttosto alla crisi del 1929? Ma soprattutto, l’epilogo sarà lo stesso?
Finora il danno sulla crescita globale è stimato intorno all’1% del PIL per il 2020. Mi sembra ottimistico, in quanto gli Usa non sono ancora stati toccati dallo shock se non in modo marginale. Però il danno sulla crescita non è un problema gravissimo se tale danno è puramente esogeno e temporaneo.
Esogeno come il coronavirus, intende?
Certo. È uno shock del tutto esogeno, simile a un colossale attacco terroristico, ma del tutto dissimile dalla crisi del subprime del 2008. Il problema sarebbe maggiore se il sistema capitalistico fosse intrinsecamente malato e avesse perduto la capacità di investire e generare reddito. Guardando alle 10-15 grandi società americane – da Apple ad Amazon, Facebook, Alphabet, Microsoft, JP Morgan, Visa, J&J… – direi che stanno bene!
Però non mi ha risposto. Siamo a un nuovo 2008?
Assolutamente no. La crisi del 2008 era forse non facile da prevedere come timing, ma le cause erano davanti agli occhi di tutti ed erano macroscopiche. Si guadagnava troppo bene per aprire gli occhi e riflettere. Non c’è stato un evento inatteso e scatenante: il sistema bancario era per tre quarti malato e Lehman era da mesi considerata una controparte a rischio estremo da Wall Street. Eravamo in una bolla colossale, dalle commodities al real estate, al leverage delle banche, per non parlare del debito privato alle stelle e alle valutazioni stellari delle aziende quotate. Non è stato un black swan… il crollo della Borsa è stato un evento estremo, ma le cause erano purtroppo evidenti e misurabili da tutti, era questione di tempo. Ripeto, non era un “cigno nero”!
Oggi è meglio? Non sembrerebbe, a giudicare dalle perdite.
Mi viene da dire che le banche stanno molto bene rispetto al 2007-2009. E adesso le banche centrali sono terrorizzate dalla situazione…. Ma non c’è confronto in termini di preparazione e preoccupazione da parte delle autorità monetarie. Lo shock esogeno – in questo caso il coronavirus – sta avendo un impatto molto violento sulle borse, ma fino ad ora abbiamo solo visto un periodo di bear market concentrato in 3 settimane. L’unico lato positivo di uno shock esogeno è che non appena si rimuove il rischio estremo dallo scenario, i mercati rimbalzano, i CEOs tornano a investire, le aziende più aggressive fanno una politica di marketing più spregiudicata. Qualcuno inizia e gli altri seguono.
Ma si rimuove il rischio estremo? È questo il punto. L’andamento dei mercati è preoccupante. Che cosa ci stanno dicendo?
Come sempre, cose importanti. Il mercato azionario era molto caro e le valutazioni si basavano su assunzioni di crescita globale del 3,5%, di inflazione stabile tra 1 e 2% e earnings growth delle società quotate intorno al 6-7% per il 2020. Non ultimo, banche centrali pronte a intervenire in caso di bisogno. Uno scenario idilliaco. Chiaramente i mercati non credono più a queste stime e ci stanno dicendo che scenari ben peggiori sono alle porte, non solo una crescita bassa dei profitti aziendali.
Ci aiuti a capire meglio il perché di cali azionari così violenti.
Alla luce del nuovo evento, che non è ancora ben inquadrato, abbiamo pochissima visibilità sulle stime degli earnings per il 2020. Quando l’incertezza aumenta, anche il premio per il rischio deve aumentare e questo spiega il rapido calo delle azioni. Ad essere sinceri, dai livelli di un mese fa, ci si poteva aspettare una salutare correzione del 10%, ma con questa intensità sono più i danni che le componenti salutari. Oggi abbiamo un calo sicuro della crescita globale, dei corporate earnings, dei consumi privati e degli investimenti aziendali. Per non parlare dell’aumento del rischio di credito di molte società e Stati. Il mix è brutto.
Allora c’è da preoccuparsi. Vuole dirci che non siamo davanti soltanto a un dovuto aggiustamento di valori di borsa, ma a qualcosa di più strutturale.
Siamo davanti a un riaggiustamento violentissimo ma ragionevole in considerazione della riduzione degli earnings per quest’anno. E temo che il riaggiustamento continui con il prevedibile calo economico americano.
I bond cosa ci dicono invece?
I treasuries Usa che continuano a volare (sono risk-free) ci dicono che il mercato sta apprezzando un rischio recessione globale così elevato da giustificare due cose: rischio di inflazione tendente a zero ed elevatissima probabilità che le banche centrali intervengano ancora con il QE con coordinamento globale.
Il 3 marzo la Fed ha tagliato i tassi dopo il SuperTuesday di 50 punti base, all’1-1,25%. Non è parsa una mossa efficace.
No, no, tutto è in qualche modo utile. Il problema è la combinazione con la politica fiscale. Con i tassi sottozero (o poco più in USA), l’impatto della politica monetaria da sola è limitato. I governi dovranno supportare l’economia insieme alle banche centrali. Io mi aspetto i tassi americani (Fed Funds) intorno allo 0,5% entro l’estate. E non sarebbe finita…
E cosa ci dicono i mercati delle commodities?
Metalli e petrolio ci stanno dicendo che ci è in corso un fortissimo rallentamento della domanda di commodities, che vuol dire di produzione industriale futura e soprattutto vuol dire sistema Cina già in forte rallentamento. Il crollo del petrolio è però frutto anche di altri fattori, come si sta leggendo.
Un calo dei costi energetici è una manna per l’economia globale che arranca…
Una volta lo sarebbe stato! Oggi questo shock danneggia molto gli USA che erano soliti beneficiare molto dei ribassi (aumento immediato del disposable income dei consumers, quindi aumento dei consumi privati, calo dell’inflazione). Oggi uno stato come il Texas, che ha contribuito moltissimo alla crescita e all’occupazione USA, è destinato ad andare presto in recessione e a danneggiare il PIL americano in modo sostanziale. Gli USA sono diventati il primo produttore di energia al mondo. Immagino che al di sotto dei 40 dollari al barile questo primato sarà messo in discussione con gravi danni al settore, specialmente in USA.
Si è fermata la fabbrica del mondo, la Cina?
Sarei più cauto. Ci sono dati discordanti sullo stato di salute cinese. La Cina ha avuto senza dubbio un shock di crescita, ma tale shock non è così facilmente quantificabile. E oggi la componente qualitativa conta molto in tali stime. Le borse cinesi non sono crollate in modo miserevole, anzi, stanno tenendo bene rispetto a quello che si sarebbe potuto immaginare a priori in circostanze analoghe. Se dovessi scommettere su chi esce meglio da questa crisi, punterei sulla Cina.
La sua visione non è troppo ottimistica?
Forse, ma pensiamo a come funziona la Cina. La Cina può permettersi ora – non certo 10 anni fa! – di crescere al 4-5% invece del 6-8% e mantenere livelli adeguati di stabilità economica e sociale. Inoltre la Cina ha un settore privato in forte crescita che sarà per tante ragioni meno sensibile allo shock esogeno. Soprattutto comparato alla consumer confidence che vedremo in forte calo in EU e USA.
Perché i consumatori cinesi dovrebbero reggere meglio l’urto?
Il consumatore cinese “vive online” già da una decina di anni. È almeno 5 anni avanti a EU e USA in termini di e-commerce penetration, per non parlare del settore fintech. Limitazioni nelle interazioni sociali, nel retail shopping e l’esplosione del remote working potrebbero avere impatti meno gravi del previsto sulla consumer confidence.
E le aziende?
Le grandi aziende sono in gran parte abituate a gestire shocks di domanda e aumenti di costi: finalmente la produttività e l’efficienza delle aziende cinesi sta accelerando. Ricordate la Sars nel 2003? Alibaba iniziava la sua crescita esplosiva anche grazie al crollo di vendite “tradizionali” dovute al panico dello shopping tradizionale. Società come Alibaba, Meituan, Tencent, Baidu, JD sono parte della vita quotidiana dei cinesi e fanno parte del sistema linfatico dell’economia cinese: sono in grado stabilizzare i consumi privati e ridurre l’impatto di questo shock sulle abitudini sociali e professionali.
Il quadro che viene fatto da molti osservatori che stimano in una possibile catastrofe l’effetto combinato di trade war, coronavirus e danni strutturali alla supply chain di molti settori è azzardato?
Sì perché è troppo presto per mettere insieme tutti i fattori che lei elenca. Lei elenca tra l’altro solo fattori negativi, mentre oggi gli attori principali si stanno parlando attivamente per evitare il peggio. E poi, non focalizziamoci solo sulla Cina, che sta meglio di quanto si creda. Teniamo sotto osservazione gli USA. Per il momento lo stato dell’economia è buono, la disoccupazione ai minimi.
Ma la crescita diminuirà.
Riusciranno a garantire un tasso di crescita che non sarà del 2,4%, potrebbe scendere a 1% nei prossimi trimestri. Si tratta sempre di una crescita per l’undicesimo anno consecutivo, e senza inflazione. Purtroppo ai livelli attuali di crescita in Usa, Giappone e Europa, basta poco per passare a due quarters negativi di seguito, cioè alla technical recession.
Mi stupisce che il suo outlook non sia allarmistico nel complesso. C’è qualcosa che la preoccupa davvero?
Io sono preoccupato, ma non cerco di fare l’infettivologo e sulla base di quello che sta succedendo, possiamo sostenere la tesi dello shock esogeno destinato a ritirarsi del tutto nella seconda parte dell’anno. Diciamo che se non ci fossero le elezioni Usa sarei più tranquillo.
Perché?
I Democratici si sono dati come obiettivo quello di distruggere Trump a qualsiasi costo. Con la Russia e l’impeachment non ci sono riusciti, l’ultima chance è il coronavirus. Last call.
In che modo?
La strategia del panico. Lo status quo rende Trump imbattibile a novembre. Il panico, l’incertezza e la percezione che la leadership del paese potrebbe non essere in grado di navigare attraverso un’emergenza sanitaria, sociale ed economica sono le basi per battere Trump.
Dove vede questa strategia in atto?
Ormai è parte della dialettica quotidiana in Usa. Ma è esplosa solo 10 giorni fa, da quando i grandi media USA, NY Times, Washington Post, CNN etc. stanno scientificamente adottando la strategia coordinata di panic spreading.
Un uso politico del coronavirus totalmente spregiudicato?
Ad oggi appare l’unico modo per far cadere Trump o non farlo rieleggere. L’approccio è semplice, indurre gli elettori a credere che una catastrofe si sta avvicinando e che un’amministrazione democratica avrebbe più capacità e credibilità dell’attuale squadra di Trump.
Perché questa scelta distruttiva? Dove si fermeranno?
Se il costo di rimuovere Trump è una grave recessione, ben venga la recessione.
È una strategia che può avere successo?
Sì.
A che cosa dobbiamo prepararci?
Se la strategia è “spread the panic”, da adesso in poi arriveranno dagli USA solo news catastrofiche, in buona parte false. Beh, senza doversi abbonare al Nyt o al Washington Post, basta leggere in italiano Corriere e Repubblica che riportano fedelmente dai loro “fratelli maggiori” le notizie dell’incombente disastro sanitario ed economico in America, mentre rassicurano gli italiani sulla gestione dell’emergenza a casa propria.
Una parola sull’Italia, Foster. La BCE? È la nostra unica certezza anche con la Lagarde al posto di Mario Draghi?
In fondo direi di sì. La ECB dovrà riattivare gli acquisti sui debiti più a rischio, non c’è via d’uscita per l’Italia senza il paracadute della ECB. Magari interverranno con lo spread a 300 punti e non a 500. L’obiettivo è proteggere questo governo italiano che fa comodo a tutti.
Perché dice questo?
Tutta Europa gode del vostro disastro in corso, ma nessuno vuole davvero l’esplosione del debito italiano. Una tale deflagrazione sarebbe troppo anche per i paesi leader dell’EU.
(Federico Ferraù)
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