Se 25 miliardi di euro vi sembrano pochi, stavolta vi sbagliate: sono tanti, e il governo Conte 2 li ha stanziati per davvero, per far fronte alla crisi coronavirus.
Ora si tratta di spenderli bene. Anzi, innanzitutto di spenderli davvero.
Vedremo venerdì: ma non c’è tempo da perdere, né trucchi da fare.
Per Conte e per il suo ministro Gualtieri, che di Europa sa tanto ma di Italia forse no, è l’ora di fronteggiare la faccia nascosta del mostro: l’impoverimento del Paese. In questo senso, la decisione del premier di chiudere uffici e negozi e ristoranti e bar e dunque quasi ogni attività economica in tutta Italia è probabilmente una premessa per poi intervenire con la massima decisione e senza tentennamenti nell’unico modo possibile purché immediato: dare soldi freschi alle aziende paralizzate dalle ordinanze anticontagio, o quanto meno permettere loro di non spenderne.
Tra le anticipazioni del primo decreto operativo, annunciato per venerdì, se ne contano di confortanti e di ambigue. Quelle confortanti, ma vaghe, sono le esenzioni e i rinvii di varie forme di prelievo fiscale e l’estensione erga omnes della cassa integrazione. Quelle allarmanti sono confuse proiezioni di investimenti, che lasciano presagire procedure farraginose e inefficaci.
Non nuoce ricordare quali sono le vere priorità per decine e decine di migliaia di aziende. Tutte quelle che – negozi in testa – da due settimane stanno fatturando un decimo del solito e che da domani fattureranno zero.
A queste aziende non si può prospettare chiacchiere. Non ci si deve permettere di parlare d’investimenti a lunga gittata ed effetto ritardato: occorre mettere soldi in tasca domani, o aiutarle a non spendere quelli che hanno.
Poiché – con la rispettosa eccezione della persona di Conte, che sta guadagnandosi pur tra mille errori una sua certa qual credibilità – non è il caso di guardare a Roma per capire cosa potrà accadere, bisogna guardare a Bruxelles e soprattutto a Berlino. È a Berlino che abitano, ahinoi, i padroni del vapore. Quei tedeschi ai quali incredibilmente i partner europei hanno ridato l’ultima parola sulle sorti del continente. Ebbene, ieri Angela Merkel – la meno peggio della sua classe dirigente – ha avuto la faccia di dire alla sua nazione, finora del tutto strafottente rispetto al rischio virus, che l’epidemia è di tutto il mondo, e che i tedeschi a rischio contagio sono, come del resto i popoli di tutto il mondo, il 60 per cento della cittadinanza.
Ha detto che è assurdo chiudere le frontiere, come ha fatto l’Austria. Ha detto, testualmente, che l’Europa deve applicare al patto di stabilità la massima flessibilità. E non a caso dopo qualche ora la sua segretaria, occasionalmente presidente della Commissione europea ossia Ursula von der Leyen, ha fatto eco con un intervento – per la verità molto bello – dove parafrasando Jfk con il suo “siamo tutti berlinesi” così caro proprio alla memoria tedesca, ha detto, parlando italiano, “siamo tutti italiani”.
Ecco: la pandemia è diventata un problema tedesco, e grazie a ciò ha avuto da tedeschi il permesso di essere considerato un problema europeo. Forse ora si può sperare che Gualtieri faccia sul serio e lasci salire davvero il debito/Pil dove deve salire per neutralizzare almeno il grosso dei contraccolpi del virus.
Naturalmente i tedeschi, come già hanno fatto con la crisi finanziaria del 2009, si riservano poi di farci pagare con gli interessi tutto quanto dovessero concederci adesso per poter meglio curare i propri problemi. Ma domani è un altro giorno, ed ogni giorno ha la sua pena. Per il momento abbiamo bisogno di terapie intensive e sussidi pubblici.
E a proposito di terapie intensive: non va sottovalutata la nomina di Domenico Arcuri a commissario per la sanità. È un civil servant all’antica, un signore di 56 anni nato in provincia di Reggio Calabria, che ha lasciato diciassette anni fa un posto d’oro nel privato – faceva l’amministratore delegato della Deloitte Consultant, con ottimo successo e 600mila euro di stipendio, che dimezzò senza batter ciglio quando l’allora (ottimo) ministro dello Sviluppo economico Pierlugi Bersani lo chiamò a risanare l’indecente guazzabuglio che era allora Sviluppo Italia. La risanò, la trasformò in Invitalia e la rilanciò, facendone quel che oggi è forse la migliore articolazione del mondo delle aziende pubbliche, riuscendo peraltro ad attraversare ben sette cambi di governo facendosi confermare sia dalla destra che dalla sinistra. Ma non per la sublime arte del galleggiamento che distinse alcuni memorabili deretani veterodemocristiani: per bravura professionale, riconosciuta in modalità bipartisan.