Il 15 marzo di ottant’anni fa, dopo le anteprime del 24 gennaio a New York e del 27 febbraio a Los Angeles, segna l’uscita nelle sale statunitensi – come ne scrive Gianni Amelio – di «una pellicola d’impatto invece universale, suggerita da un gran libro di Steinbeck. In originale era The Grapes of Wrath (“I grappoli dell’ira”), in italiano fu westernizzato come Furore. Siamo nel 1940, John Ford ha alle spalle più di vent’anni di cinema, e del cinema ha già capito tutto. […] Ma come si spiega che un film quale Furore, legato al proprio tempo da sembrare un documento dal vivo, abbia una forza che sfida gli anni, sia ancora oggi così avvincente? Perché l’arte di Ford è senza età, lontana da ogni pregiudizio, e non inganna. Qui, ad esempio, il messaggio finale “ottimistico” (diverso da quello del romanzo), non appare come un espediente, ma è il mezzo essenziale per sopravvivere. Non c’è niente di consolatorio alla fine, ma un’intatta fiducia negli esseri umani, soprattutto (e qui Steinbeck fa la sua parte) se non rimangono chiusi nel proprio recinto ma si aprono alla comunità, a una famiglia allargata fatta di uomini che si riconoscono simili non per parentela, razza o vicinato, ma perché hanno gli stessi bisogni e gli stessi diritti. Una sorta di religiosità laica percorre dall’inizio alla fine il lungo viaggio dei Joad e quando mamma Joad dice “We’re the People”, ebbene sì, viene sempre un groppo alla gola».
In piena emergenza sanitaria, fa effetto ricordare una pellicola come Furore, adattata per il grande schermo da Nunnally Johnson a partire da un’altrettanto mitica opera letteraria del Novecento come quella pubblicata solo un anno prima (14 aprile 1939) dal trentasettenne Premio Pulitzer John Steinbeck, «un eloquente tributo alla resistenza e alla dignità dello spirito umano». Da una parte la lotta che ci vede opposti a un avversario strisciante quale una pandemia virale, arrivata a insidiare la nostra comune idea di benessere e a intaccare le nostre quotidiane abitudini, che chiede di essere combattuta in trincea, dal luogo che si è scelto (o dovuto scegliere) per fare la propria parte nel “mettere il virus alla porta”; dall’altra la battaglia contro il venir meno come famiglia prima ancora che come individui ingaggiata loro malgrado dai Joad, che dalla loro contea in Oklahoma – ormai ridotta a una Dust Bowl (“ciotola di polvere”) dalla siccità – come migliaia di altri agricoltori sono spinti ad abbandonare la loro terra e a migrare westwards sulla Route 66 a bordo di una diligenza a quattro ruote diretta in California, in cerca della Promised Land: un moderno esodo dalla schiavitù nella terra d’Egitto alla libertà in quella di Canaan.
È un appassionato (e appassionante!) Martin Scorsese a ricordarci, in chiusura del suo entusiasmante “viaggio nel cinema americano”, un commento fatto da John Ford a un collaboratore che si lamentava delle infelici condizioni meteorologiche nel deserto mentre stavano cercando di girare un film. Questa persona si chiedeva cosa si potesse riprendere lì fuori e Ford gli ha risposto: «La cosa più interessante ed eccitante di tutto il mondo: un volto umano». Volti umani di cui in principio si potrebbe dire, come mamma Joad, «We was the family» e poi, a un certo punto dell’epopea, «We’re the people».
In tempi di arduo attraversamento delle nostre giornate, (ri)vediamo Furore (o un altro Ford “maggiore”): cosa ci colpirebbe di questi ritratti? Molto probabilmente ciò che il regista Lindsay Anderson così esprime in un suo libro sul celebre collega: «Le storie migliori di Ford hanno sempre un significato più profondo di quanto non sembri: esse trascendono il puro racconto. Possiedono un’anima e per questo le definiamo “poetiche”. Sembra che in lui sia innato il dono di raccontare chiaramente, pianamente, rivolgendosi al pubblico più semplice e sprovveduto. Contemporaneamente, può trasformare i suoi racconti in poemi rivolti a chi ha occhi per vedere e orecchie per sentire. È lo stile a produrre la magia: con la sua semplicità immediata e senza fronzoli esprime i reali contenuti della vicenda, che non sono le sue mere circostanze. È uno stile fatto di potenza, non di spiegazioni. La forza della personalità che l’ha prodotto non si mette mai in mostra. Lo scopo di Ford – anche se non avrebbe mai usato questo termine – è sempre stata l’empatia. Tra spettatori ed esperienza della visione non dovrebbe mai intervenire nulla: e l’esperienza non è “il film” ma una storia, una situazione, un personaggio, l’espressione di un sentimento. […] Lontane o vicine, sono le persone a ispirare i film. E nei film di Ford ben poche inquadrature non vengono determinate dalla presenza di una figura umana».
Allora, perché non metterci in viaggio con i Joad e John Ford? Buona “traversata” e buona visione!